Spiritualità di comunione nel quotidiano

 

Santificarsi insieme: alcuni strumenti

di Marco Tecilla

 

L’autore, oggi sacerdote, toccato dalla semplicità evangelica della vita di Chiara Lubich e delle sue compagne, aderì già nel 1945 al nascente Movimento dei focolari e insieme ad altri due compagni diede inizio al primo focolare maschile. Egli, dopo averci raccontato il suo impatto con questa nuova spiritualità, spiega quali strumenti essa offre per renderla operante.

Per me, formato in un ambiente cristiano tradizionale, parlare di santità era pensare alle penitenze, alla preghiera continua, ai miracoli, ad una vita ritirata e individuale; quindi una vita assai difficile se non addirittura impossibile. Quando Chiara Lubich mi chiese di dimenticare tutto, anche la stessa santità, mi sembrava un linguaggio difficile da comprendere e quasi in contrasto con la tradizione. In seguito capii che cosa lei intendeva: occorreva spogliarsi delle idee che avevo accumulato in precedenza, per acquistare un più esatto modo di comprendere il cristianesimo.

Era una via nuova che Chiara, a poco a poco, mi mostrava, una via che scaturiva dalla preghiera sacerdotale di Gesù, quando si rivolge al Padre e gli chiede che tutti siano una sola cosa, come il Padre e Lui sono uno (cf Gv 17, 21).

Mi aiutò anche la comprensione nuova del grido di Gesù in croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Egli, oltre a riaprirci il rapporto col Padre, era anche causa di unità tra di noi. Quindi non più santi individuali, ma santi insieme.

Iniziava una nuova via, una via di santificazione collettiva o comunitaria, quella proposta oggi dal Santo Padre nella Novo millennio ineunte a tutta la Chiesa.

È pur vero che anche un S. Basilio e poi più tardi un S. Agostino – per citare qualche Padre della Chiesa – hanno fatto una grande esperienza di vita comune e quindi di santità; ma qui, mi sembra di poter dire,  c’è un qualcosa di nuovo, una novità che investe tutto il popolo di Dio. Quel «che tutti siano una cosa sola», deve diventare per il cristiano, vita normale, vita quotidiana. Non si tratta quindi di fuggire il mondo, ma di sentire in noi la responsabilità della santificazione di tutti; avere l’anima spalancata, come quella di Gesù, sull’umanità.

Nasce una spiritualità nuova

È chiaro che tale comprensione è avvenuta gradualmente, attraverso la luce del carisma che lo Spirito Santo ha donato a Chiara Lubich e che lei ha trasmesso a tutti noi.

Lasciamo che ci ricordi lei stessa su come sono nati nel suo cuore i primi palpiti di questa spiritualità.

«Nei primissimi tempi noi siamo state avviate da Dio per una strada molto precisa ed era la via dell’amore (...).  Siccome io non ero sola nel fare questa strada, ma ero con altre focolarine, questa via della carità è diventata fra noi carità reciproca, ed è diventato legge per noi il comandamento nuovo di Gesù: “amatevi come io ho amato voi”, con tutte le sfumature che questo “comando” contiene (la carità che tutto spera, tutto crede, tutto sopporta...).

Noi abbiamo incominciato ad amarci così ed abbiamo visto che la carità reciproca ci portava verso Dio in una santità non individuale ma collettiva, andavamo a Dio insieme (...). Eravamo legatissime. Quindi si è subito manifestata, la nostra, una via di comunione.

Finché è successo qualcosa di nuovo. Come due poli della luce elettrica, che hanno in sé la corrente, ma bisogna che si uniscano per fare luce – e la luce è un elemento in più della corrente elettrica – così noi, unendoci mediante la carità reciproca abbiamo “fatto luce”, ed è quella grazia particolare della presenza di Cristo in mezzo alle anime unite. È stata un’esperienza sbalorditiva!

Solo la presenza di Gesù, il fratello per eccellenza in mezzo a noi, dava senso a questa nuova fraternità che si andava componendo. È stato Lui che ci ha fuse, che ci ha unite. Ed era Lui che attuava fra noi, poche dapprima, e poi tante, il suo Testamento: ut unum sint. (...) Ci vuole [infatti]  Dio per far di due uno, ci voleva Cristo in mezzo a noi per fare di due uno.

Gesù in mezzo era ed è la natura della nostra vita. Non si tratta quindi di imitare i santi, pur avendo per loro un amore particolare, quanto di imitare il Santo, Gesù. Di meritare la sua presenza attraverso il continuo amore reciproco»1.

Questa esperienza carismatica degli inizi si è tradotta nella “premessa di ogni altra regola” con cui si aprono gli Statuti del Movimento dei focolari, approvati dalla Chiesa: «La mutua e continua carità, che rende possibile l’unità e porta la presenza di Gesù nella collettività, è per le persone che fanno parte dell’Opera di Maria la base della loro vita in ogni suo aspetto: è la norma delle norme, la premessa di ogni altra regola».

Per chi percorre la via dell’unità, la presenza di Gesù in mezzo è quindi essenziale, anzi obbligatoria. Solo su quella si può costruire. Tutto ha significato e valore nel lavoro, nello studio, anche nella preghiera, come nell’irradiazione della vita cristiana, se c’è prima con i fratelli Gesù in mezzo.

Questo “generare” Gesù in mezzo a noi mediante la mutua e continua carità, richiede un amore senza misura a Gesù Abbandonato che incontriamo nelle quotidiane difficoltà dovute alla nostra natura umana, ai nostri caratteri, alle nostre culture diverse, a quello che S. Paolo chiama “l’uomo vecchio”. Per tutto questo la vita comunitaria è come una macina che ha il compito di trasformarci in farina per formare un solo pane.

Una spiritualità sociale

È quindi, questa, una spiritualità sociale, spiccatamente comunitaria, che porta ad attuare il Corpo mistico e mira a una “santità di popolo”, come diceva Paolo VI.

Notava giustamente Karl Rahner: «Noi più anziani (...) siamo stati spiritualmente degli individualisti, data la nostra provenienza e la nostra formazione. (...) Se c’è un’esperienza dello Spirito Santo fatta in comune, certamente ritenuta tale,  (...) essa è (...) l’esperienza della prima Pentecoste nella Chiesa, un evento – si deve presumere – che non consistette certo nel casuale raduno di una somma di mistici individualistici, ma nell’esperienza dello Spirito fatta dalla comunità (...). Io penso che in una spiritualità del futuro l’elemento della comunione spirituale fraterna, di una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada»2.

Chiara, quando Dio le si è manifestato come il tutto della sua vita, non ha tenuto per se questa luce. Racconta lei stessa: «Immediatamente io sentivo che dovevo comunicare questa grande scoperta alle mie compagne. E ci comunicavamo fra noi le esperienze e quello che era dell’una diventava dell’altra».

È iniziato così il dinamismo della vita spirituale delle prime focolarine e di quanti hanno seguito questo carisma. Dinamismo che ha contribuito, negli anni, non solo a formare quel “popolo nuovo” che è l’anima della civiltà dell’amore auspicata da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, ma a far sperimentare alle anime quella profonda unione con Dio che fa dire a Chiara: «L’anima dell’unità: vive scavando sempre più la propria anima in Dio; s’avvicina sempre più al Dio che vive nel suo cuore e sempre più s’avvicina al Dio che vive nel cuore dei fratelli».

Gli strumenti
della spiritualità collettiva

La spiritualità dell’unità ci aiuta a diventare un altro Gesù. Ma perché ciò avvenga, per poter procedere “insieme nel cammino verso la santità”,  si sono andate delineando sin dall’inizio – a fianco alla preghiera e alla vita sacramentale – delle pratiche caratteristiche quali mezzi concreti per tradurre in vita i cardini fondamentali della spiritualità3.

Ne ha offerto una sintetica presentazione Chiara Lubich, parlando nel febbraio 1984 ad un gruppo di vescovi: «Per mantenere sempre viva l’unità (...) serve molto, per esempio, la comunicazione delle esperienze sulla Parola di Dio (...). Poi i colloqui dei responsabili con gli altri membri (...). È assai utile e indispensabile l’ora della verità in cui tutti ci si dà una mano, non solo a togliere i difetti, ma anche ad accrescere le proprie virtù. E, infine, non si può prescindere dalla comunicazione della propria anima, nei vari momenti del suo cammino, sempre nei limiti della prudenza (...). È una via, insomma, che si fa insieme, nella quale si cerca la santità altrui come la propria, perché ciò che più conta è la gloria di Dio».

Questi “strumenti” della nostra spiritualità che ci aiutano a santificarci insieme, sono cinque: il Patto dell’amore scambievole, la comunione d’anima, la comunione delle esperienze sulla Parola, l’ora della verità, il colloquio.

Essi si praticano nella vita di focolare e, con diverse modalità, anche nella vita delle varie diramazioni del Movimento.

Il Patto

La storia della vita spirituale della nostra Opera è stata disseminata, fin dal suo nascere, da “patti”, cioè da impegni personali e comunitari ad aiutarsi reciprocamente nel santo viaggio della nostra esistenza.

Dopo la scoperta da parte di Chiara e delle sue compagne dell’amore e dell’amore scambievole come la cosa che più di ogni altra stava a cuore a Gesù, ecco, immediata, la decisione di essere nel piccolo gruppo quella parola realizzata. E poiché nel Vangelo avevano trovato che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13), si dichiararono pronte a dare la vita l’una per l’altra.

«È con questo patto – afferma Chiara – che si mette la pietra angolare del Movimento, che si pone la premessa d’una spiritualità centrata sull’unità»

La spiritualità dell’unità ci invita infatti a fare come fecero le prime focolarine quando si dissero: «Io sono pronta a morire per te; io per te, tutte per ognuna», e quando, di conseguenza, sperimentavano in maniera forte e nuova la presenza di Gesù in mezzo a loro, il Risorto che porta con sé tutti i frutti dello Spirito: una pace nuova, una gioia piena e luce, tanta luce.

«È sacra questa dichiarazione d’amore reciproco, questo patto – dice Chiara –; è solenne, anche se fatto nella semplicità; e non è privo di difficoltà». E spiega: «Con alcuni, infatti, sarà facile pronunciarlo; con altri occorrerà preparare il terreno. È un atto non privo di sacrificio perché occorrerà alle volte vincere il rispetto umano, altre superare l’indolenza o il tran tran spirituale in cui siamo magari caduti. Bisognerà praticare l’umiltà per far tacere l’amor proprio, pagare, insomma, il primo costo del passaggio da un modo di vivere individuale ad una spiritualità collettiva».

C’è in questo patto un forte richiamo alla radicalità dell’amore evangelico. La carità – come la intende Gesù – non è solo «una prontezza a dar la vita. È dar la vita (...). Ogni cristiano, solo se muore sempre a se stesso per gli altri, ha la carità». Se muore spiritualmente, rinnegando se stesso per “vivere gli altri”. O anche fisicamente, se occorre.

Il Patto dell’amore scambievole, e quindi il dare la vita l’uno per l’altro, appartiene, dunque, alla sostanza del vivere cristiano. Esso «non è una sovrastruttura della vocazione nostra. È precisamente ciò che dobbiamo fare». E porta il frutto straordinario della presenza di Cristo non soltanto nell’anima dei singoli, ma anche in mezzo a noi.

C’è anche un altro espediente che aiuta ad essere fedeli e costanti nell’amore scambievole: il Patto di misericordia. Esso consiste nel perdonare e nel dimenticare qualsiasi difetto si può aver visto negli altri durante la giornata e nel mettere, alla sera, come in una tomba tutte le impressioni negative, per rivederci il giorno dopo nuovissimi, come ci si incontrasse per la prima volta, con quello sguardo che è proprio della misericordia di Dio, il quale ci vede e ci mette nel nostro dover essere.

La comunione d’anima

Il ruolo di questo secondo strumento della spiritualità dell’unità, cioè la condivisione della propria esperienza spirituale, è stato fondamentale fin dai primi tempi, come Chiara stessa racconta:

«Dio mi spingeva ad esser sempre in Lui. Ed ecco il metodo che mi aveva suggerito ancora prima d’imparare a vivere la Parola di vita: comunicare alle prime focolarine quanto avevo capito e quanto avevo sperimentato». Questo, assieme ad altri modi di fare, «era stato il sistema per mantenere me e le altre nel soprannaturale. E ciò ha dato origine ad una ricchissima vita spirituale nel Movimento».

Era un modo, suggerito dallo Spirito Santo, di portare sulla terra la vita della SS. Trinità:

«Il dinamismo della vita intratrinitaria è incondizionato reciproco dono di Sé, è totale ed eterna comunione. Sta scritto:  “Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie” (Gv 17, 10) tra il Padre e il Figlio nello Spirito».

È la prima volta, nella storia della spiritualità, che viene messa così a fuoco una pratica nuova e per certi versi rivoluzionaria, ma con un saldo fondamento biblico-teologico.

«Ordinariamente i doni di Dio vanno tenuti segreti, nel proprio cuore – spiega Chiara. Ma in un’Opera come la nostra, il cui cuore non è solo il centro di ogni singola anima, ma anche Cristo fra le anime, qual è il modo per custodire le cose sante?

Qui mi sembra valgano le parole: “È bene tener nascosto il segreto del re, ma è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio” (Tb 12, 7); “è più perfetto donare agli altri ciò che si è contemplato che contemplare soltanto”, dice San Tommaso».

Ma l’esempio più illuminante di comunione d’anima lo troviamo nel Vangelo: la visita di Maria a santa Elisabetta:

«Maria (...) avendo trovato in lei un’anima aperta ai misteri di Dio, ha sentito di poterle comunicare quanto teneva in cuore e lo ha fatto con il Magnificat, narrando così ad Elisabetta la sua straordinaria esperienza».

Le condizioni
per una genuina comunione d’anima

Una prima premessa indispensabile è l’amore scambievole, cementato dal Patto. Se si è pronti a dare la vita per i fratelli come, con la grazia di Dio, vogliamo, si è disposti anche ad aprir loro il proprio cuore.

Ed è questo un modo di realizzare la santità collettiva, la santità di comunione.

Ma non meno importante è la nostra personale unione con Dio. Il farsi santi insieme «non annulla l’impegno personale, anzi lo esige. Quindi fare una preghiera sempre più approfondita, migliorare il lavoro, riposare quando si deve farlo (...). Fare tutto bene. Altrimenti cosa hai da dare agli altri? Dio non ti illumina, se tu non vivi. Per avere una vera esperienza spirituale, per essere “fontane”, tu devi vivere». Quando poi abbiamo vissuto bene, allora possiamo mettere in comune con gli altri la nostra anima. Ed è doveroso farlo. Perché «noi – lo sappiamo – siamo tanto in quanto siamo per gli altri».

Perché tale comunicazione della vita della propria anima sia occasione di vero arricchimento spirituale, Chiara raccomanda ancora: «Occorre saper dare ai fratelli con un atto di carità che, anziché svuotare l’anima, l’arricchisce, oltre che della ricchezza che ha, del nuovo atto di carità che fa. Ma ciò come può avvenire? Col dare, rimanendo in comunione con Gesù: in comunione con Gesù presente nella nostra anima (facendo ciò, quando è volontà di Dio) ed in comunione coi fratelli, in cui vediamo ed amiamo Cristo».

La comunione delle esperienze
della Parola di vita

È anche questa una pratica vissuta fin dai primi giorni del Movimento. La Parola di vita era ed è per noi di un’importanza fondamentale. La nostra Opera è nata come un’incarnazione della Parola. È per la Parola vissuta che Cristo si forma in noi. Quindi è importantissimo vivere la Parola. Ma questo non basta. Noi siamo chiamati a mettere in comune le nostre esperienze, e non farlo, dice Chiara, «è una grave omissione».

Agli inizi del Movimento si viveva la Parola intensamente «fino al punto che quasi non eravamo noi a vivere, ma era la Parola che viveva in noi».

E il comunicare le esperienze fatte, vivendo la Parola, costruiva la comunità. Ricordo come era grande la sorpresa di chi ci proponeva di vivere una Parola del Vangelo e vedeva nascere e crescere una comunità cristiana.

Nella comunione delle esperienze non si tratta di condividere con gli altri riflessioni, studi o meditazioni sul Vangelo, anche se questo potrà servire. Bisogna comunicare quello che si è vissuto. Non occorre che siano fatti clamorosi, basta che siano anche piccoli momenti della nostra vita in cui la Parola ha illuminato e trasformato pure le cose più semplici.

L’atteggiamento con cui si fa tutto questo è sempre quello di dare la vita, come il pellicano che nutre i suoi piccoli dando il proprio sangue. Dice Chiara: «Non esiste un focolarino (ma questo vale anche per tutti i cristiani), che non sia, come Gesù, un pellicano». E soprattutto in questo tempo in cui, come affermava Paolo VI, non si ascoltano tanto i maestri, quanto i testimoni.

L’ora della verità

È lo “strumento” più impegnativo e forse il più difficile, ma molto utile alla spiritualità collettiva, al nostro santificarci insieme. Ricorda una pratica che si riscontrava fra i primi cristiani: l’ammonimento reciproco.

Consiste nel contribuire a santificare con noi i nostri fratelli, e si pratica offrendo, dicendo ad essi, con amore, quanto possiamo aver visto in loro di negativo e di positivo. Noi chiamiamo questi momenti “purgatorio” e “paradiso”.

L’ora della verità va sempre fatta nel contesto di un ritiro spirituale, nel quale prima si fa meditazione, si rivede la propria vocazione e si rinnova la tensione alla santità. Non si fa mai isolatamente. Si pratica in un piccolo gruppo, alla presenza di un responsabile che funge da moderatore per confermare o correggere quanto viene detto. Innanzi tutto si rinnova fra tutti il Patto, perché tutto si svolga nell’amore pieno. Poi si dicono i difetti per aiutarsi ad eliminarli e i pregi per svilupparli. La correzione va fatta come un atto d’amore, senza turbare la persona, ma edificandola. Come ricevere quanto gli altri ci dicono? L’importante è amare la verità, prenderla come un dono, aderirvi senza analizzare, senza preoccuparsi, senza pensare a come togliersi quei difetti riscontrati in noi dai fratelli, ma accogliendo subito quanto ci viene detto con tutto il cuore e tuffandosi poi ad amare, perché «chi ascolta la parola è già mondato» (cf Gv 15, 3 e Sap 16, 12). Alla fine tutti hanno una grande gioia. È forse l’esperienza della libertà cristiana, della Parola attuata: «La verità vi farà liberi» (Gv 8, 32).

Il colloquio

Come si sa, il nostro Movimento è composto di persone di tutte le vocazioni e anche di tutte le età. È fatto di laici, ma anche di persone consacrate e di sacerdoti; di persone adulte, di giovani, di bambini. Per far intendere a tutti loro l’importanza del colloquio spirituale – oltre che del sacramento della riconciliazione – Chiara Lubich ha parole semplici ed efficaci: se, per certi particolari, nell’ora della verità il fratello vede di noi quello che noi non sappiamo vedere, senza dubbio nessuno conosce meglio noi di noi stessi. Però, come per mantenere la salute del corpo non sono sempre sufficienti le nostre cure, ma ci affidiamo a persone esperte, o per la revisione dell’automobile occorre ogni tanto la competenza di un meccanico, così è bene controllare di tempo in tempo l’andamento della nostra anima con un fratello o una sorella più avanti di noi per esperienza o per quella grazia particolare che ha nei nostri riguardi.

E c’è anche qui un caratteristico atteggiamento, tutta una “tecnica” del colloquio, una tecnica del “farsi uno” con l’altro, frutto dell’esperienza fatta vivendo la spiritualità nel rapporto fra di noi.

Per concludere

Accanto a questi modi di agire che riguardano la dimensione comunitaria della nostra vita e che sono efficacissimi mezzi per mantenere sempre vivo l’amore reciproco e quindi la presenza di Cristo in mezzo a noi, nel nostro Movimento si sottolinea altrettanto la dimensione personale della vita spirituale.

Ce ne ha parlato di recente Chiara Lubich, al suo ritorno da un viaggio in Spagna dove ha avuto occasione di visitare i luoghi di Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce:

«Gli episodi straordinari della loro vita (...) hanno avuto su di me un notevole, forte impatto; vi hanno scavato un insaziabile desiderio: quello di approfondire, di sviluppare al massimo l’aspetto individuale, previsto anche nella nostra “spiritualità dell’unità”, che è personale e comunitaria insieme.

Ho avvertito dentro di me l’urgenza, la necessità e la bellezza di rivedere i momenti sacri che la volontà di Dio su di noi ha riservato a questo scopo, e di adempiere, con moltiplicato impegno, quegli obblighi che concretizzano il nostro rapporto con Dio. Obblighi diversi secondo le nostre vocazioni, ma che per noi sono, ad esempio, le preghiere in varie ore della giornata, la meditazione quotidiana, la recita del rosario, l’assistere alla santa messa con la partecipazione all’Eucaristia, la visita a Gesù nel Santissimo Sacramento, l’esame di coscienza e gli “strumenti” della nostra santità. Doveri questi, in genere, di ogni giorno. E poi la confessione frequente, il ritiro mensile e gli esercizi spirituali una volta all’anno.

Si tratta di quelle pratiche che noi definiamo il “vestito” che indossiamo, premessa per poter poi uscire ad amare i fratelli. Sì: il vestito! Ma di quale vestito si tratta? È il vestito d’oro dell’unione con Dio. È e deve essere oro, oro, oro.  E può diventare miniera d’oro se si accresce amando fuori, per Dio, i fratelli».

Marco Tecilla

 

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1)     Discorso inedito, 26. 2. 64.

2)     Elementi di spiritualità del futuro, in: Problemi e prospettive di spiritualità (a cura di T. Goffi – B. Secondin), Brescia 1983, pp. 440-441.

3)     Per quanto segue cf Come un arcobaleno. Spiritualità e vita di preghiera (a cura di Natalia Dallapiccola e Enzo Maria Fondi), pubblicazione ad uso interno del Movimento dei focolari, gennaio 2000, pp. 52-92, da cui sono attinti, in particolare, i vari brani di Chiara Lubich.