L’abbandono di Gesù: per una cultura dell’unità

autori vari

Attraverso un forum, il Congresso ha esplorato le implicazioni dell’abbandono di Gesù sul piano della teologia e della cultura. Vi sono intervenuti Giuseppe Maria Zanghí, filosofo e direttore della rivista "Nuova umanità", Gérard Rossé, esegeta, Piero Coda, teologo, Jesús Castellano Cervera, esperto di storia della spiritualità; moderatore Hubertus Blaumeiser. Riportiamo qui la trascrizione di questa Tavola rotonda.

Tenebra che si trasforma in luce

Giuseppe Maria Zanghí: La conoscenza del Movimento e della spiritualità ebbe un impatto grandissimo nella mia vita, la mutò radicalmente. E logicamente, dato che studiavo filosofia, ebbe un impatto anche su tutto il mio modo sia di affrontare gli studi di filosofia sia di situarmi di fronte alla filosofia. Ovviamente, mi rendevo conto che la capacità di "utilizzare" (mi si perdoni la parola) la spiritualità del Movimento per comprendere e approfondire il discorso filosofico, dipendeva anche dalla misura nella quale io penetravo in questa spiritualità.

E per il discorso filosofico devo dire che un ruolo fondamentale ha giocato proprio Gesù abbandonato. Più personalmente con la vita entravo in qualche cosa che di per sé parla di buio, perché Gesù abbandonato è l’oscuramento, è la tenebra dell’uomo-Dio sulla croce, più sperimentavo che questa tenebra si trasformava poi lentamente, a seconda anche della mia corrispondenza, del mio coraggio spirituale, in una luce, ma una luce diversa da quella alla quale mi ero abituato studiando filosofia: in filosofia si gioca molto con la luce della ragione, una luce razionale, che ha la sua grandissima importanza; qui, era una luce di tipo diverso: di tipo proprio spirituale, profondo, sapienziale.

In questa realtà ho cominciato a rileggere un po’ la storia della filosofia. Mi limito a dei cenni, perché in cinque minuti è impossibile dire tutto quello che si dovrebbe dire. Anzitutto, ho ricapito la grande tradizione filosofica greca e latina – per la quale avevo una passione particolare. È una filosofia grandissima, ma avendo scoperto Gesù abbandonato e la luce che egli proietta sul mistero dell’incarnazione, mi veniva subito in evidenza anche il limite profondo della filosofia greca. Per il greco, che pure è stato il grande scopritore dell’essere, la verità è fuori del mondo sensibile; e questo lo posso capire, perché il Verbo ancora non s’era fatto carne: incominciai a comprendere che l’incarnazione del Verbo non è un fatto soltanto soteriologico, è un accadimento che ci fa ripensare tutto, a partire dal nostro stesso modo di pensare. Il fatto che il Verbo si faccia carne, ci dice qualcosa della consistenza della realtà, e della realtà sensibile, cosa che il pensiero greco non poteva in nessun modo scoprire.

Un’altra osservazione. Per i greci il cosmo includeva tutto; gli dèi erano "dentro" la realtà del cosmo. Gesù abbandonato, nel suo momento di croce, della ferita interiore che gli è stata inferta nel suo rapporto col Padre ("Tutti mi abbandoneranno, tranne il Padre"), raggiunge le fondamenta del mondo, là dove il mondo si scopre come una realtà che non è se non per la volontà di Uno che lo vuole. E Gesù abbandonato la fa essere in sé.

Certamente al pensiero greco mancava l’intuizione che c’è un Assoluto che "assolutamente" trascende il mondo: ma come è possibile ciò, se non nella luce di una Incarnazione che, mentre afferma l’assoluta Trascendenza di Esso, ne afferma anche una immanenza nel mondo, per un greco assolutamente impensabile?

La filosofia è salita sulla croce

C’è poi il grande periodo della patristica e del grande medioevo: questo periodo, filosoficamente parlando, è un po’ arduo, ci si pone la domanda di fondo: ma i padri, i medioevali hanno fatto filosofia o teologia? E che ancora adesso ci si interroghi sul problema se esista o no una filosofia cristiana, ci dice che il problema non è ancora del tutto risolto.

A me sembra che dietro questa difficoltà c’è la constatazione che l’Incarnazione, e quindi la passione con l’abbandono e la risurrezione, era letta in una chiave direi quasi esclusivamente soteriologica: che il Verbo di Dio si sia fatto carne, da un punto di vista metafisico ha una sua rilevanza? Mi sembra di dover dire che per via dell’Incarnazione noi siamo ormai di fronte al mistero-realtà della theantropia: oramai, cioè, l’essere è umano e divino, ed è su questo che bisogna profondamente riflettere, lievitando la metafisica con la storia e radicando nella verità la storia con la metafisica. L’umanità del Cristo, nel suo abbandono, mi si rivela nella sua completa umanità: Gesù si rivela veramente uomo: se non si capisce questo, allora la filosofia, sapere profondamente umano, non può essere compresa nella sua realtà.

Se poi riflettiamo sulla crisi della filosofia moderna e contemporanea (crisi dovuta anche alla separazione sia dalla teologia sia dalla rivelazione) non posso non pensare che la filosofia è salita sulla croce, è entrata nella tenebra dell’Abbandonato. In questo senso amo leggere l’avventura della filosofia moderna: come l’inizio della penetrazione della Parola di Dio incarnata nel pensiero nella sua nudità creaturale, il pensiero come pensiero.

In questo senso possiamo capire perché il nulla diventa paradossalmente la categoria forte del pensiero moderno. La grande domanda di Leibniz, ripresa poi da Heidegger, e non solo da lui: perché c’è l’essere anziché il nulla? sarebbe stata inconcepibile per un pensatore medievale e anche per un greco. Il moderno la capisce, perché dietro di lui c’è quella croce – assunta anche inconsapevolmente – sulla quale il Cristo ha gridato l’abbandono.

Riduzione all’essenziale del sapere

Accanto a questo, un’altra cosa che ho scoperto con Gesù abbandonato, e mi è sembrata molto importante, è stata la necessità di allargare l’ambito della riflessione al pensiero non europeo, non occidentale. Mi sono reso conto che si è fatta una confusione tra il pensare e il filosofare, perché il filosofare è di fatto la forma che il pensare ha assunto in Grecia: è questo, mi sembra, che bisogna capire. Parlare per esempio di una filosofia indiana, di una filosofia cinese, si può fare, però già in partenza ci esponiamo a una non-comprensione di quella realtà di pensiero. Maturò allora dentro di me il bisogno di una radicalità che approdi al di là della filosofia, così da raggiungere anche altre forme di pensiero (penso all’India, alla Cina, alle culture tradizionali). E questa radicalità l’ho scoperta in Gesù abbandonato.

Gesù abbandonato ha dato tutto. Gesù, che è il pensiero espresso di Dio, è stato come ridotto all’essenziale, una essenzialità che noi non possiamo riuscire a capire. Spogliato di tutto. Allora, è solo in un pensiero che si lascia dilatare da questa dimensione, che le forme del pensare si possono incontrare là dove il pensare è veramente se stesso quando è condotto al di là di sé, nell’amore che è l’essenza essenziale dell’essere. In questo senso, occorrono pensatori che facciano del loro cammino di conoscenza non un accrescimento del sapere, ma una continua riduzione all’essenziale del sapere, fino a quando la parola "ceda" il posto all’amore. È in questo pensare-come-amore che tutte le grandi tradizioni culturali si possono incontrare.

Nel Nuovo Testamento: un vero grido che lamenta l’assenza di Dio

Hubertus Blaumeiser: Gesù abbandonato quindi come chiave di una nuova interpretazione del pensiero e come chiave di un pensiero nuovo.

Andiamo alle radici, con Gérard Rossé. Questa espressione "Gesù abbandonato", ovviamente, risale a due citazioni nel Nuovo Testamento. Ma sono proprio solo due frasi nel Nuovo Testamento o c’è una prospettiva più ampia?

Gérard Rossé: È una frase, è il primo versetto o, secondo rispetto a come si legge, del Salmo 22.

Nel passato si parlava normalmente di sette parole di Gesù in croce. Oggi non più, perché si capisce che bisogna rispettare la teologia di ogni evangelista. Ora questo Salmo 22, versetto 1 o 2 si legge soltanto nel Vangelo di Marco, e al suo seguito nel Vangelo di Matteo. E il racconto della passione nel Vangelo di Marco è ritenuto il più antico scritto che abbiamo nel Nuovo Testamento sulla passione. Quindi già questo dimostra una certa importanza di quel grido. Poi bisogna tenere presente che il Salmo 22 posto in bocca a Gesù, non è messo come citazione di un salmo, di un testo della Scrittura, ma come parole di Gesù, e questo significa, naturalmente, che Marco tiene al contenuto stesso di quella parola e non pensa a una specie di recita che farebbe Gesù in croce dell’intero salmo, che finisce in lode e ringraziamento; quindi si vede già che l’accento in Marco è su questo abbandono.

Un’altra cosa: è, nel Vangelo di Marco, l’unica parola di Gesù in croce; non ce ne sono altre; quindi sicuramente come ogni evangelista tiene sempre a mettere parole essenziali in bocca a Gesù quando sta per morire, per Marco quella parola del salmo, messa in bocca a Gesù come sua parola, ha sicuramente un valore fondamentale per l’evangelista.

È inoltre confermato dal fatto che l’abbandono arriva come al culmine di una serie di abbandoni che iniziano nella passione già con la fuga dei discepoli, poi il rinnegamento di Pietro, tutti gli scherni della folla, dell’autorità giudaica e, solitudine delle solitudini, c’è questo grido di Gesù stesso.

Quindi bisogna veramente prendere sul serio quel grido come un vero grido di Gesù che lamenta l’assenza di Dio nella sua fedeltà a Dio, e quindi solidarizza con tanti giusti sofferenti dell’Antico Testamento, che urlano questo grido di abbandono, questo non sentire la presenza di Dio.

Gesù ha assunto fino in fondo la situazione di lontananza da Dio

Un’altra cosa: teologicamente, l’abbandono è legato alla morte di Gesù, forse non letterariamente visto che è legato all’Elia, alla venuta di Elia, secondo lo scherno dei soldati, ma teologicamente sì. Cioè, il grido d’abbandono in Marco non è interrotto da nessuna parola consolatrice di Dio, quindi questo grido di abbandono accompagna Gesù fino nella morte; e Dio interviene nella morte.

Tutto il valore teologico è da capire a partire da questa realtà, perché la morte, lo sappiamo, nella Bibbia è segno della finitudine, certo della creaturalità dell’uomo, ma soprattutto anche segno del peccato dell’uomo, e quindi segno della lontananza da Dio. E sicuramente dal punto di vista teologico, Marco voleva significare proprio questo andare di Gesù Figlio di Dio fino in fondo alla condizione umana di creatura e di peccato, fino in fondo alla situazione di lontananza da Dio.

E quindi vale più che mai quello che anche i padri della chiesa dicono, che soltanto ciò che è stato assunto è stato salvato; bisogna partire da lì poi per fare la teologia.

L’abbandono di Gesù, spiegazione di Dio-Amore

Hubertus Blaumeiser: Il grido di Gesù, quindi, come il significato profondo della passione e morte di Gesù, della sua solidarietà totale con gli uomini fino ad assumersi le conseguenze del peccato. Un abisso terribile per chi pensa Dio come Colui che è al di sopra di tutto, immobile nella sua Trascendenza. Nella teologia questo grido per secoli non è stato molto presente, mi pare. Chiediamo a Piero Coda di parlarci di questo.

Piero Coda: Il cuore del Nuovo Testamento è racchiuso in una piccola frase della prima lettera di Giovanni: "Dio è Amore". E la spiegazione di questa frase è Gesù crocifisso, è il grido dell’abbandono di Gesù in croce, che dischiude il significato più profondo della sua passione e morte.

La fede e l’autocoscienza della chiesa, a livello profondo, l’hanno sempre saputo. Ma direi che solo oggi queste due realtà – Dio/Amore e Gesù abbandonato – non solo acquistano un’indiscussacentralità, ma si presentano anche come i due fuochi, indisgiungibili, di un’ellisse, dove l’uno illumina l’altro, e viceversa.

E allora viene subito da chiedersi: perché solo oggi Gesù abbandonato assume esplicitamente questa centralità: sino a poter essere definito "il Dio del nostro tempo" come fa Chiara Lubich? Perché – penso – occorreva prima mettere al sicuro, nella coscienza della chiesa, le due verità fondamentali della rivelazione cristiana: Gesù vero Dio e vero uomo, da una parte, e Dio Uno e Trino, dall’altra, proprio come hanno fatto i dogmi dei primi secoli della chiesa.

L’attenzione dei Padri della chiesa e dei grandi dottori medioevali, infatti, è rivolta soprattutto all’espressione e alla comprensione di queste due verità. E il grido dell’abbandono viene letto in ottica cristologica e soteriologica, non tanto in riferimento alla Trinità.

Ci si chiede: com’è possibile e perché Gesù – che è vero Dio – può lanciare questo grido scandaloso? La risposta – tipica quella di Agostino – è chiara: è possibile perché, oltre che vero Dio, Gesù è vero uomo; e il motivo del suo grido sta nel fatto che egli prende su di sé il peccato degli uomini per espiarlo.

Per cui si deve dire, insieme, che Unus de Trinitate passus est, e che Gesù grida come uomo a nome del suo corpo, che è la chiesa.

Nella modernità – più nella filosofia e nella mistica che nella teologia – s’intuisce che l’evento dell’abbandono ci dice qualcosa non solo sull’agire salvifico di Dio, ma sul suo stesso essere. Si comincia a parlare – anche in forma negativa, ateistica, spesso sotto la sferza di un’esperienza nuova, abissale, della libertà e del male – di "morte di Dio". Penso, sia pur in modi diversi, a Hegel, Nietzsche, Heidegger…

La teologia del nostro secolo – anche provocata dal pensiero moderno – mette allora in rapporto Gesù crocifisso e abbandonato e la Trinità. Scopre, cioè, che l’evento dell’abbandono è evento trinitario: Gesù abbandonato rivela chi è Dio Amore. È significativo che ciò avvenga in tutte e tre le grandi confessioni cristiane: penso a K. Barth, D. Bonhoeffer e E. Jüngel per quella evangelica; a S. Bulgakov per quella ortodossa; a H.U. von Balthasar per quella cattolica.

L’abbandono di Gesù, legge della vita della Trinità sulla terra

In questo contesto si colloca, con una sua peculiare originalità, la visione di Gesù abbandonato di Chiara. Che non è frutto di studio, ma di un carisma. Vi sono infatti dei carismi, cioè dei doni dello Spirito Santo – spiega von Balthasar –, che hanno da Dio la luce di dischiudere, per la chiesa, uno sguardo nuovo sul centro della rivelazione. Tanto che Chiara ha potuto dire che il carisma dell’unità è "la rivelazione di Gesù abbandonato".

Due direi, soprattutto, sono le novità di questa visione.

Da una parte, Gesù abbandonato ci rivela il segreto, la dinamica di quell’Amore che è Dio. Egli ci dice che l’Amore (Dio) è perché non è: è amore, perché si dà (non è); ma proprio così è, è amore.

Ricordo quando ho sentito questa espressione di Chiara la prima volta. Avevo, penso, 17 anni e ho intuito che lì c’era qualche cosa che sconvolgeva il mio modo di pensare e di vivere, perché avevo sempre sentito che io sono se sono; se non sono, non sono: è il principio di non contraddizione di Aristotele basato sull’essere in sé. Mentre lì sentivo dire: io sono se non sono… Intuivo che così era dischiusa la legge dell’essere, di un essere che è amore, e allo stesso tempo che Dio me l’avrebbe fatta capire solamente quando io un poco l’avessi vissuta. E infatti è stato così nella mia esperienza.

Ma ecco come si esprime Chiara stessa riferendosi all’Essere di Dio Uno e Trino: "Il Padre genera per amore il Figlio, si "perde" in lui, vive in lui, si fa, in certo modo, "non essere" per amore e proprio così è, è Padre. Il Figlio, quale eco del Padre, torna per amore al Padre, si "perde" in lui, vive in lui, si fa, in certo modo, "non essere" per amore e proprio così è, è Figlio; lo Spirito Santo che è il reciproco amore tra Padre e Figlio, il loro vincolo d’unità, si fa, anch’egli, in certo modo, "non essere", per amore, e proprio così è, è lo Spirito Santo".

Allo stesso tempo, Gesù abbandonato ci fa partecipare alla vita di Dio: egli, infatti, è il Figlio di Dio fatto uomo che, per noi, dà non solo la sua vita umana, ma anche il suo essere-Dio (si svuota, lo perde, è la kenosi di cui ci parla S. Paolo in Fil 2,7): ma così è (risorge) e partecipa agli uomini – nello Spirito Santo – il suo esser-Dio, ci fa figli nel Figlio.

Di qui la seconda novità: noi, perché figli nel Figlio, siamo chiamati a vivere tra noi amandoci come Gesù abbandonato ci ha amati, dando tutto, "perdendo" anche Dio in noi per Dio nel fratello. Gesù abbandonato, dunque, è lo stile del nostro amore cristiano, è la legge della vita della Trinità sulla terra.

Nella prova della fede la mistica si apre al mistero di quel grido

Hubertus Blaumeiser: La mistica attinge non tanto alla riflessione, allo studio, quanto all’esperienza. C’è un lungo silenzio della teologia sull’abbandono di Gesù; qualche cenno si trova invece nella mistica. Chiediamo a padre Castellano in che misura il mistero di Gesù abbandonato è stato presente nella mistica.

Jesús Castellano Cervera: Il grido di Gesù, con la sua portata teologica e spirituale di rivelazione del divino e di esperienza vissuta, è rimasto come velato nella sua più intima comprensione attraverso i secoli.

I commenti dei Padri sul senso esperienziale di questo grido rimangono in qualche modo nella periferia del mistero, nell’alone di luce che vi si sprigiona, ma troppo al di fuori della esperienza umana che l’ha provocato.

I teologi non sono arrivati a percepire la profondità dell’esperienza umana e divina che si celava nel grido di Gesù.

Sono state le esperienze di alcuni spirituali e mistici che a partire dalla percezione dell’assenza di Dio e dell’abisso dell’oscurità, nella prova stessa della fede si sono aperti alla comprensione del mistero che si cela nel grido di Gesù in croce.

Il mistero del Crocifisso contemplato dai santi come di fronte a lui diventa in certo modo il mistero dell’Abbandona t o, quando lo Spirito ha fatto sperimentare qualcosa dell’abisso di dolore spirituale e di amore che Gesù ha vissuto nella croce e che ha espresso nel suo grido lancinante, in quella parola acuminata che sembra fendere il Cielo e la terra: Dio mio, Dio mio.

Ciò era stato percepito con grande lucidità da Giovanni della Croce quattro secoli fa, a partire da concrete profonde esperienze personali di solitudine e di abbandono che gli avevano permesso di cogliere il senso profondo del grido di Gesù in Croce. Per questo in una pagina antologica aveva proposto la sua contemplazione del mistero di Gesù in Croce come vertice della spiritualità e misura massima dell’amore per il Padre e della fecondità della redenzione.

Egli ha scritto: "...È evidente come, al momento della morte egli fosse annichilito anche nell’anima, senza alcun sollievo e conforto, essendo stato lasciato dal Padre secondo la parte inferiore, in un’intima aridità, così grande che fu costretto a gridare: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,44). Quello fu l’abbandono più desolante che avesse esperimentato nei sensi durante la sua vita e, proprio mentre ne era oppresso, egli compì l’opera più meravigliosa di quante ne avesse compiute in Cielo e in terra durante la sua esistenza terrena ricca di miracoli e di prodigi, opera che consiste nell’aver riconciliato e unito a Dio, per grazia, il genere umano. Ciò dunque avvenne nel momento in cui nostro Signore raggiunse il massimo del suo annichilimento in ogni campo: nella reputazione degli uomini, i quali vedendolo morire, invece di stimarlo, si burlavano di lui; nella natura, nel cui confronto si annichilì morendo; nell’aiuto e conforto spirituale del Padre che in quel momento lo abbandonò affinché puramente pagasse il debito e unisse l’uomo con Dio. In tal modo Cristo rimasse annichilito e ridotto quasi nel nulla..." (Salita del Monte Carmelo, II, cap. 7, n. 11).

Misura e criterio dell’autentica spiritualità cristiana

Hubertus Blaumeiser: Vorrei chiedere a padre Jesús Castellano qualche cosa alla luce di quello che Piero Coda diceva prima. Mi sembra che tu hai parlato qui di Gesù abbandonato in quella che Piero chiamava la linea cristologica, cioè come la rivelazione dell’amore del Figlio di Dio per l’umanità, di Dio per l’umanità. In san Giovanni della Croce c’è anche uno squarcio dentro la vita trinitaria e c’è la prospettiva che questa è la legge della vita della chiesa. Come le spiritualità e i carismi trovano un punto di unità in Gesù abbandonato e possono rinnovarsi a partire da esso?

Jesús Castellano Cervera: Gesù crocifisso e abbandonato è davvero il vertice e la sintesi di ogni spiritualità. I santi di tutti i tempi verrebbero unanimi e compatti a rendere testimonianza di questa verità vissuta. Essi contemplano e vivono in Cristo crocifisso e abbandonato il modello più alto dell’amore del Padre e dei fratelli, misura e criterio della autentica spiritualità cristiana. L’abbandono di Gesù infatti congiunge con il suo amore le due sponde più separate: la comunione con il peccato e i peccatori e l’unità con la santità di Dio.

Gesù abbandonato ha il sapore dell’amore puro per Dio che lo provoca a rivelarsi come Amore infinito, è l’adempimento perfetto della sua volontà fino al vertice dell’umano. Egli è il santo e la santità perfetta, la congiunzione di tutti i paradossi. È il fedele al disegno del Padre. È lo Sposo che ha sposato in sé tutta l’umanità affinché nessuno rimanga senza speranza anche nelle situazioni più disperate.

È nella misura in cui noi comprendiamo che il crocifisso è l’Abbandonato che incominciamo a capire come dal grido di Gesù sgorga il battesimo e il dono dello Spirito Santo; che egli è il perdono supremo di tutti i nostri peccati che egli ha assunto e perdonato nel suo grido di dolore e di amore. Che Gesù è sacerdote supremo di tutta l’umanità e del cosmo perché è lì che congiunge come mediatore il Cielo e la terra. E che è pure il modello della spiritualità sponsale.

Ogni carisma ha in lui la sua sorgente e si ritrova in lui allo stato puro

Possiamo quindi dire che egli è la sintesi della spiritualità cristiana e delle diverse spiritualità nella chiesa.

Le parole vive del vangelo vissute dai santi e proposte come tante vie evangeliche sono come la spiritualità unica; esse tendono a riunirsi nell’ultima parola di Gesù, nel vertice della sua esperienza che tutto sintetizza e tutto avvolge: il mistero di Gesù crocifisso e abbandonato. Ognuna raggiunge in lui il suo vertice. Gesù abbandonato è l’amore supremo, il culto spirituale per eccellenza, la preghiera più alta e feconda, l’obbedienza più difficile e gradita, lo spogliamento più assoluto, la verginità più feconda.

In lui si può contemplare realizzata la perfezione della vita sacerdotale e della spiritualità sacerdotale vera, cioè di un servizio per amore fino al dono della vita; una carità pastorale che è un costante esodo totale da sé per condividere la situazione dei fratelli.

Egli manifesta la misteriosa prova purificatrice del fallimento apostolico e la pienezza della fecondità missionaria, le varie notti dello spirito che preludono alle giornate luminose di Pasqua. Ogni esperienza spirituale, ogni espressione della santità ed ogni misura della perfezione cristiana, ha in lui il suo vertice e la sua sintesi, se le si contempla nel cuore e nello Spirito dell’Abbandonato. Ogni carisma si ritrova in lui come allo stato puro, ed ha in lui la sua sorgente se è vero che dal cuore trafitto di Cristo sgorgano i fiumi dello Spirito, pienezza di tutti i doni e di tutti carismi.

E tutti ci ritroviamo uniti in lui come nella sorgente e nel vertice di ogni spiritualità che ci fa uno.

Gesù abbandonato: colui che muore fuori le mura

Hubertus Blaumeiser: Torniamo alle radici. E rimaniamo sempre in questa prospettiva aperta da Piero Coda: Gesù abbandonato come rivelazione di Dio non solo nel suo agire verso l’umanità, ma nella sua vita intima, e Gesù abbandonato come rivelazione della vita, rivelazione ultima della legge che regola o della dinamica che caratterizza la vita ecclesiale.

Gérard Rossé: Non c’è un approfondimento esplicito su Gesù abbandonato nel Nuovo Testamento, però la realtà di Gesù abbandonato fa da sfondo, è presente un po’ ovunque negli scritti del Nuovo Testamento, che sono testimonianza della vita delle prime comunità. Qualche volta emerge: basta pensare a quella frase del Deuteronomio: "Maledetto l’appeso al legno", che viene riferita da Paolo riguardo al Crocifisso; e si è scoperto anche non molti anni fa che a Qumran, e quindi in quell’epoca nel giudaismo, si aveva l’abitudine di attribuire questa maledizione, questa dimensione religiosa, a un crocifisso nel nome della Legge. E quindi, lì è già presente. È vero che Paolo non lo sviluppa teologicamente, ne parla a proposito della Legge (in Gal 3, 13).

L’idea dell’abbandono è anche presente in altri testi. L’immagine del morire fuori dalle mura, per esempio. Se ne parla nella Lettera agli Ebrei, nella parabola dei vignaioli omicidi, il figlio che viene ucciso fuori dalla vigna: la vigna è Israele; ora, fuori dalle mura vuol dire lì dove non c’è Dio, perché dentro le mura c’è il tempio, c’è la presenza di YHWH. Quindi una morte fuori vuol dire una morte dove non c’è Dio, e quindi c’è questa solidarietà del Crocifisso con l’umanità lontana da Dio. C’è questo simbolismo.

Inizio della nuova creazione

Adesso per capire l’approfondimento e le piste che il Nuovo Testamento può suggerire poi alla teologia, bisogna anche tenere conto di certi altri dati che Piero infatti ha già enumerato, e cioè che Gesù non è solo uomo, è Figlio di Dio; e quindi tutto quello che lui vive (si chiama l’obbedienza), è vissuto dal Figlio all’interno della Trinità.

L’altra cosa è come il Nuovo Testamento tiene sempre a sottolineare questa obbedienza di Gesù, in relazione alla sua morte. C’è la famosa parola greca dei, cioè "occorre, è necessario" che Gesù muoia. Che non vuol dire sottomissione a un destino fatale, ma Gesù fa sua la volontà salvifica del Padre a favore dell’uomo, la quale per raggiungere l’uomo non poteva non passare per questa morte. Un’altra cosa che viene rivelata è l’amore, direi, fino alla pazzia di Dio nei confronti dell’umanità. Questo Paolo l’ha sviluppato nella Prima Lettera ai Corinzi, primo capitolo, in cui dice che veramente Gesù crocifisso è stoltezza, è follia, mentre in realtà è sapienza di Dio e Dio non teme di dare di Sé un’immagine contraria a come l’uomo religioso si rappresenta Dio. Quindi è una cosa estremamente seria, è travolgente.

Un’altra apertura è il tipo di salvezza stessa: in che cosa consiste? E qui si vede come l’abbandono insegna che per Gesù la salvezza non è una specie di evento esterno a lui, ma ha una dimensione essenzialmente esistenziale, cioè egli deve vivere nella sua propria carne questa solidarietà con l’uomo fino in fondo, e in quella solidarietà vivere il suo rapporto con Dio, cioè vivere il suo rapporto filiale con il Padre. Quindi è una realtà non di pagamento o di soddisfazione alla giustizia divina.

L’altra cosa che dice ancora l’abbandono è che la salvezza non si limita solo a ottenere il perdono dei peccati, ma inaugura l’ora escatologica perché Gesù vive l’unità massima con Dio, proprio in questa profondità in cui raggiunge l’uomo e lo porta nel seno del Padre; quindi non solo rimette i debiti o i peccati: veramente inizia la nuova creazione. E quindi non si può staccare salvezza ed escatologia, cioè pienezza realizzata, compimento del progetto di Dio.

La chiave dell’apostolato: perdere Dio per Dio

Un’altra cosa, che appare in Paolo, è che Gesù abbandonato (anche se lui non lo dice così, ma parla del Crocifisso semplicemente), è veramente la chiave dell’apostolato o, se volete, anche della missione universale della chiesa. E questo già dal punto di vista della storia... come tappa nella storia della salvezza, perché la missione della chiesa era possibile solo se usciva dal giudaismo. E questo è possibile solo se uno è capace di perdere Dio per Dio, cioè se vive Gesù abbandonato, anche se gli dà un altro nome. Ora ricordiamo che effettivamente uscire dalla Legge non vuol dire uscire da un sistema legale di comandamenti, vuol dire uscire dall’Alleanza, perché la Legge era per il giudeo, e anche per il giudeo cristiano all’inizio, la condizione per rimanere in comunione con Dio. Ora la missione universale è solo possibile se si supera questa realtà. L’incidente di Antiochia è molto significativo da questo punto di vista.

L’altra cosa è che lo scopo stesso della missione universale è raggiungere l’uomo dove è nella sua lontananza da Dio; e anche questo è Gesù abbandonato in fondo che lo dice, cioè la capacità di trovare Dio lì dove non c’è Dio.

Poi è il metodo stesso: quello che Paolo dice "farsi tutto a tutti"; Paolo stesso dice: questo è possibile solo se io sono capace di farmi senza Legge con chi non ha Legge, nel senso proprio di saper abbandonare quella comunione con Dio che la Legge gli darebbe, per poter solidarizzare con chi non ce l’ha.

E poi ovviamente c’è anche l’aspetto etico, su cui non mi soffermo, perché Piero Coda ne ha parlato, cioè la misura stessa dell’amore. È l’essere con-morti con Cristo, da vivere nei rapporti. Quindi Gesù abbandonato è anche la chiave di unità e il tipo di amore reciproco da vivere.

Chiave di volta di tutta la teologia

Hubertus Blaumeiser: Quindi una grandissima ricchezza di prospettive che si apre proprio a partire dal mistero di Gesù crocifisso e abbandonato.

Chiediamo a Piero, come teologo: il mistero di Gesù crocifisso e abbandonato può essere il punto chiave di una nuova sintesi teologica?

Piero Coda: Vorrei dire una parola, rispettivamente, su due compiti della teologia e, più in generale, della cultura del nostro tempo, sui quali sono convinto che Gesù abbandonato ha da offrire un contributo decisivo. Entrambi sono ricordati da Giovanni Paolo II nella sua recente enciclica Fides et ratio.

Al n. 93, il papa dice che al centro della teologia vi dev’essere oggi la contemplazione del mistero di Dio Uno e Trino alla luce della kenosi di Dio in Gesù.

Molti mistici dicono che il Verbo di Dio è l’occhio con cui Dio ci guarda. Chiara si esprime in termini analoghi, dicendo che Gesù abbandonato è "la pupilla dell’Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio".

Quando ho ascoltato la prima volta questa frase sono stato come capovolto, perché ho avvertito che lì qualcosa feriva la mia intelligenza, la mia vita, vi entrava dentro e ricostruiva il mio rapporto con Dio, il mio modo di vedere Dio. Perché?

Perché, in realtà, noi possiamo conoscere Dio perché egli per primo ci conosce, in una conoscenza che ci crea e ci ri-crea. E lui ci conosce pienamente in Gesù abbandonato: in lui Dio raggiunge col suo amore tutti e ciascuno, così che niente e nessuno è più fuori dell’orizzonte del suo sguardo d’amore. In Gesù abbandonato Dio ci conosce così come siamo, illuminati e trasformati dal suo amore infinito. Dunque, anche noi, a nostra volta, possiamo conoscere Dio per chi egli veramente è, in tutto il suo Amore, in Gesù abbandonato.

Ne consegue che Gesù abbandonato non è un tema tra gli altri della teologia. È la chiave di tutta la teologia. La teologia, in effetti, ha un unico oggetto: Dio; Dio conosciuto in Se stesso; Dio conosciuto fuori di Sé, nella creazione, nell’umanità che è sua immagine; e Dio "tutto in tutti", come già ora è in Gesù Risorto e in Maria assunta in cielo e come lo sarà alla fine dei tempi in tutte le cose.

Gesù abbandonato ci fa appunto conoscere Dio in Sé (come Amore), Dio fuori di Sé (creazione, incarnazione, divinizzazione: come storia d’amore di Dio con noi), Dio tutto in tutti (come amore consumato). In una parola, ci fa conoscere tutta la teologia.

Teologia che nasce dalla comunione, dall’unità vissuta

Ma per conoscere così Dio, occorre entrare in Dio, occorre che la nostra mente sia crocifissa e risorga con Cristo. Gesù abbandonato è la chiave che ci introduce in quell’essere in Gesù che ci porta in Dio e che ci fa conoscere Dio, perché Dio lo conosco solo se sono in Dio; se non sono in Dio non conoscerò mai Dio, sarò sempre fuori, come ai confini di una circonferenza… Gesù abbandonato mi mette dentro Dio, nel modo, tra l’altro, più semplice che ci sia, perché, nel momento in cui amo l’altro, gli voglio bene vedendo Gesù in lui, "muoio" a me stesso per essere uno con lui, e così, per questo nostro amore, vivo Gesù abbandonato ed entro in Dio.

Ciò lo possiamo realizzare nella vita di comunione e di unità anche a livello intellettuale, staccandoci dal nostro modo di pensare, dal pensare stesso per farci uno – come Gesù abbandonato – con i fratelli. La vita d’unità è perciò la base, il presupposto, di un nuovo modo di fare teologia: in cui conosciamo Dio perché siamo in Dio – per l’amore reciproco, grazie a Gesù abbandonato.

Gesù abbandonato, dunque, non è solo la chiave della teologia, ma anche il metodo della teologia che nasce dall’unità vissuta.

Via ad una nuova unità del sapere pur nella distinzione delle discipline

Il secondo compito che ci è proposto dal papa nella Fides et ratio, nel n. 85, è quello di giungere – nel corso del prossimo millennio – "a una visione organica e unitaria del sapere". Con la modernità, infatti, s’è infranta l’unità del sapere. La nostra epoca – anche per l’incontro tra le diverse culture e religioni – è sotto il segno del pluralismo.

Eppure Dio è uno, il mondo è uno, l’uomo è uno. Si sente l’esigenza di giungere a una nuova sintesi dei saperi che dia gloria a Dio e sia autenticamente a servizio dell’umanità, a cominciare dagli ultimi.

Anche in questo senso – penso, e l’esperienza d’interdisciplinarietà della scuola Abbà ce ne dice qualcosa – Gesù abbandonato è la strada. Sotto due profili. Innanzi tutto, perché – vissuto dai cultori delle diverse discipline – fa vivere Gesù in loro per l’unità: perché "crocifigge" e fa "risorgere" in Cristo il proprio io e dunque anche il proprio modo d’esercitare l’intelligenza. Per cui è Gesù, in ciascuno, che fa lo scienziato, il filosofo, il teologo… Così ogni scienza, generata dall’amore, è a servizio dell’altra, vive in rapporto trinitario con le altre.

In secondo luogo, perché Gesù abbandonato ci dischiude il senso dell’essere che sta sotto tutte le cose: ci dischiude, cioè, una nuova ontologia, l’ontologia dell’amore, della Trinità, della relazione che lega Dio alle realtà create e le realtà create tra di loro.

In lui, dunque, le diverse scienze possono trovare, pur nella loro necessaria distinzione e autonomia dei diversi metodi, uno sguardo che le accomuna. Perché l’impronta di Dio, Uno e Trino, in Gesù abbandonato è inscritta in tutte le cose create e in tutte le realtà umane.

Basti pensare alla cosmologia contemporanea, con la visione dinamica e relazionale che ci presenta; o alla psicologia, con la centralità del rapporto intersoggettivo… son tutte realtà che richiamano Gesù abbandonato e la Trinità.

Dunque: lavorare con umiltà e fiducia per un incontro tra i diversi saperi, in Gesù abbandonato, non è più un’utopia: ma un orizzonte realistico e affascinante. Non hýbris della ragione, ma grazia di Dio e creatività responsabile della persona umana che vive in comunione.

La notte oscura dell’Occidente: pensare l’Assoluto che si incarna, l’esistenza intera fatta Dio

Hubertus Blaumeiser: Torniamo all’inizio del nostro dialogo: Gesù abbandonato e la cultura, Gesù abbandonato e la cultura di oggi che sta attraversando un momento così difficile, spesso visto tanto negativamente da pensatori cristiani.

Giuseppe Maria Zanghí: Dopo tutto quello che è stato detto da Piero Coda, da Gérard Rossé, da padre Jesús, concludere per me è più facile, perché si sono aperti degli squarci attraverso i quali si è potuti penetrare più intensamente in questa realtà, in questo mistero che è Gesù abbandonato. Mi riallaccio a ciò che dicevo all’inizio, quando mi è parso di scoprire nell’avventura della cultura moderna, la figura del Crocifisso abbandonato; non solo del Crocifisso, ma dell’Abbandonato.

In questa ottica, quando si leggono Hegel, Schelling, Nietzsche, Heidegger, dobbiamo sempre misurarci col grido di Cristo che grida: Perché mi hai abbandonato?

Per illustrare questo, cito un brano di Giovanni Paolo II, da un discorso dell’ottobre 1982, al V Simposio dei vescovi europei. Non ho mai sentito esprimere con tanta lucidità la maniera con la quale dobbiamo misurarci col pensiero contemporaneo.

"Le crisi dell’uomo europeo – dice il papa – sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana. Ancor più profondamente possiamo affermare che queste prove, queste tentazioni e questo esito del dramma europeo, non solo interpellano il cristianesimo e la chiesa dal di fuori, come una difficoltà o un ostacolo esterno, ma in un certo senso vero, sono interiori al cristianesimo e alla chiesa. Scopriamo, forse non senza meraviglia, che le crisi e le tentazioni dell’uomo europeo e dell’Europa, sono crisi e tentazioni del cristianesimo e della chiesa in Europa. In questa luce il cristianesimo può scoprire, nell’avventura dello spirito europeo – [e io mi permetterei di aggiungere: dello spirito dell’Occidente, allargando anche alle Americhe] – le tentazioni, le infedeltà e i rischi che sono propri dell’uomo nel suo rapporto essenziale con Dio in Cristo".

Questo testo, per me, è di una importanza e di una profondità estreme, per rispondere alla domanda che non possiamo non porci: come mai una cultura che è nata dall’incontro tra la fede cristiana e la grande cultura greco-latina, ed è cresciuta come fede cristiana, adesso ha questo esito che tutti noi verifichiamo? Come mai il nichilismo, il consumismo?

È che non si tratta del rapporto essenziale dell’uomo con Dio, ma dell’uomo con Dio in Cristo.

Se non si mette al centro della nostra riflessione filosofica Cristo in tutto l’arco della sua vita, dall’Incarnazione alla Risurrezione, non possiamo capire quello che accade. Nel rapporto dell’uomo, in particolare della sua intelligenza, con Dio, è entrato il Verbo di Dio fatto uomo, con il suo messaggio. Occorre pensare l’Assoluto che è Trinità, l’Assoluto che s’incarna, si fa uomo e individuo, uno fra tanti uomini; pensare la carne, l’esistenza intera, fatta Dio! Dobbiamo allora non stupirci che un annuncio di questa fatta non può penetrare nella mente dell’uomo e lasciarla quella che era prima: la provoca, la rovescia, affinché lentamente, nella fedeltà allo Spirito, l’uomo possa trovare, possa "inventare", quelle categorie che riescano ad esprimere in maniera sempre più vicina alla realtà, la novità del messaggio cristiano. In questo senso non temo di guardare all’avventura della cultura dell’Europa, dell’Occidente, come a una notte oscura epocale.

Nel medioevo abbiamo avuto forse un momento fortissimo di luce: è il momento delle grandi sintesi intellettuali, delle università; è il momento della grande arte (si pensi alle immense cattedrali, a un poeta come Dante). A un certo momento tutto questo comincia ad abbuiarsi. Un mistico potrebbe raccontarci, per la sua esperienza, come, dopo il momento dell’illuminazione, l’uomo deve entrare in quell’altro momento che si chiama notte dello spirito.

Io penso che dovremmo leggere l’avventura del pensiero (che vuol dire autori ben precisi, dei quali alle volte ci spaventiamo o ci scandalizziamo: ma ricordiamoci che Cristo è disceso agli inferi!) come un segno di questa notte oscura che una cultura intera sta vivendo per rispondere fedelmente alla chiamata del vangelo.

Quindi la cultura dell’Occidente, che appare come una grande infedele al vangelo, nel fondo, in questa infedeltà, sta cercando una fedeltà profonda.

Risposta alla ricerca contemporanea: il Cristo risorto vivente in mezzo a noi

Che cosa manca, mi chiedo, a questa cultura? Manca l’alba della risurrezione. Il momento in cui Cristo appare e Maria di Magdala lo riconosce. E che cosa si può fare per portare la cultura odierna al giardino di Pasqua? Bisogna, penso, che questa cultura si incontri non con delle teorie, non con degli schemi, ma con il Cristo risorto, quel Gesù abbandonato che al di là del suo abbandono si manifesta nella gloria della risurrezione.

Ciò che noi cristiani, su un piano vitale prima, e poi anche culturale, possiamo presentare come risposta alla domanda della ricerca della cultura contemporanea, è il Cristo risorto vivente in mezzo a noi. Qui si aprono gli spazi di luce in questo grande bosco senza sentieri nel quale si è inoltrata la cultura contemporanea.

E nell’unità vissuta – che è poi la chiesa nella sua essenza – il pensare "sciolto" nell’amore, può "inventare" quelle categorie "nuove" che abbiano lo splendore immutabile della verità e la duttile plasticità della vita.