7 ottobre 2001 – 27ª domenica t.o.
Ab 1,2-3; 2,2-4 / 2 Tm 1,6-8.13-14 / Lc 17,5-10
DITE: SIAMO SERVI INUTILI!
Lc 17,10
Al tempo di Gesù era normale per un servo che ritornava dal lavoro preparare la tavola e portare il cibo al padrone.
Dopo aver richiamato questo comportamento, Gesù conclude: “Voi, quando avrete fatto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Gesù non vuole dirci che il nostro rapporto con Dio è simile a quello fra padrone e schiavo: noi siamo figli! Gesù vuole insegnarci il segreto per avere in noi la vita di Dio. Vuole che il nostro modo di vivere somigli al suo; ed Egli si è abbassato fino a farsi servo di tutti. Gesù ci invita ad essere piccoli e umili, a non sentirci ricchi di qualche dovere compiuto e meritevoli di qualche ricompensa.
I santi capiscono il vero rapporto con Dio e gli dicono sinceramente: “Io sono niente, Tu sei tutto”.
Quando ci poniamo in questa posizione giusta e vera davanti a Dio e al prossimo, siamo come il “vuoto” che è riempito dall’amore, dalla vita e dalla gloria di Dio e raggiungiamo la piena maturità e felicità. Proviamo ad amare Dio e i fratelli in modo disinteressato, puro, senza aspettarci nulla in cambio. Amiamo, non per avere una ricompensa, ma per partecipare alla vita di Lui che è l’Amore.
D. P. e L. C.
Chomjai Kalandakanon è una tailandese di famiglia aristocratica che
aveva vent’anni quando, nel 1968, venne a studiare a Firenze. Capitò a
Loppiano, dove le avevano detto che vivevano alcune ragazze tailandesi, il
giorno in cui la cittadella festeggiava il Natale, e per la prima volta
Chomjai, che non sapeva nulla del cristianesimo, fece l’esperienza di una
porzione di umanità varia ma unita nella gioia e nella testimonianza di un
amore che non avrebbe mai immaginato.
L’esperienza fu così forte che sentì subito il desiderio di farne
parte, di conoscere la spiritualità che l’animava e far propria la dottrina su
cui si basava. Decise quindi di diventare cristiana.
«Dopo quasi un anno, però - ricorda - la salute cominciò a vacillare.
La mia umanità aveva bisogno di essere sostenuta perché potessi corrispondere alla luce ricevuta. Non erano però mia
madre o la mia famiglia naturale che avrebbero potuto aiutarmi.
Fu a questo punto che incontrai Albertina, una maestra in pensione,
mamma di uno degli abitanti della cittadella.
Ebbi modo di stare con lei e di essere coinvolta da tanti atti di
attenzione (un liquore di uova fatto in
casa, un cibo stimolante con spezie orientali, un pigiama nuovo) e specialmente
dall’esempio di una disponibilità totale, di un amore più grande di quello di
mia madre, che aveva qualcosa anche di una sorella e di un’amica, ma più grande
dell’una e dell’altra. E questo mi ha aiutata a riprendere le forze, ridandomi
la certezza di poter corrispondere a ciò che Dio mi chiedeva.
Associandomi alla sua vita, Albertina mi ha fatto sperimentare la
dimensione della carità che ispirava le sue parole e i suoi atti.
Un giorno, mentre facevamo la spesa, la proprietaria del negozio mi
guardò, poi, rivolgendosi ad Albertina, le chiese: “Questa è sua figlia?”.
Evidentemente il rapporto che c’era fra noi era più forte del fatto che io
avessi gli occhi a mandorla...
Albertina mi ha anche fatto capire come essere poveri. Lei che ogni
domenica portava in comunità indumenti, coperte, generi alimentari,
elettrodomestici e giochi, viveva in una casa dove non c’era nulla. Nel suo
letto c’erano le lenzuola e le coperte che aveva visto rotte e che si era
portate a casa con la scusa di ripararle e che aveva tenuto per sé, portando in
comunità lenzuola e coperte nuove. Questo succedeva anche per tovaglie,
asciugamani, federe, ecc.»
Un giorno Chomjai sentì parlare di Maria e scrisse: «Albertina mi ha
trasmesso la vita di Maria e mi ha fatto sperimentare cos’è l’amore di una
mamma. È un amore che si sente responsabile, che è pronto a soffrire per le
proprie creature, che dà loro la vita. È misericordia, perdono, servizio.
Ho capito anche che tutti noi dobbiamo avere questo amore “che ha
sapore di mamma”, e non soltanto volerci bene come fratelli».
Ciò però di cui Chomjai è soprattutto grata ad Albertina è che non le
ha mai fatto alcuna concessione. «Se non ero spiritualmente “su”, cioè
nell’amore, dovevo immediatamente alzarmi perché non potevo guardarla negli
occhi. C’era in lei l’esperienza diventata abitudine di stare di fronte a Dio,
alla quale dovevo subito adeguarmi».
(dal libro “Albertina, una storia che continua”)