III DOMENICA DI QUARESIMA/C
1 In quel tempo si presentarono alcuni a riferire
a Gesù circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei
loro sacrifici. 2 Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che
quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale
sorte? 3 No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete
tutti allo stesso modo. 4 O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero
più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5 No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete
tutti allo stesso modo”. 6 Disse anche questa parabola: “Un tale aveva un
fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7 Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni
che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? 8 Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora
quest’anno, finché
io gli zappi attorno e vi metta il concime 9 e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no,
lo taglierai”.
[Lc 13,1-9]
Il brano dell’Esodo (3,1-8.13-15: I
lettura) narra la vocazione di Mosè: Dio lo chiama e gli affida la
missione di essere suo strumento per la liberazione del popolo, che si trova
schiavo in Egitto. Gli rivela anche il proprio nome: “Io sono Colui che sono! ...Dirai agli Israeliti: ‘Io
sono’ mi ha mandato a voi”. Nelle nostre bibbie l’espressione è resa di
solito col termine “il Signore”. Ma propriamente significa “Colui che è (in ebraico: “Iahvè”). In
che senso? Dio è l’unico che esiste veramente, in una pienezza di vita
indefettibile. E’ il “Vivente” e fonte della vita. L’unico che può salvare, in
contrapposizione a quanti - ieri e oggi - sono ritenuti “dei”,
ma sono “idoli” (cioè apparenza). Colui che è
efficacemente presente al popolo che si è scelto. E’ per
il suo popolo, è con il suo popolo, in una compagnia eternamente
fedele. A un Dio così i credenti sanno di potersi
“convertire” e affidare con totale sicurezza.
La conversione deve essere sincera. San Paolo
ricorda (1 Cor. 10, 1-12: II lettura) l’esperienza degli Israeliti nel deserto
sotto la guida di Mosè, quale viene riferita dalla
Bibbia. Nonostante i doni abbondanti di cui
beneficiarono (il passaggio del mare, che prefigurava il battesimo cristiano;
la manna e l’acqua scaturita dalla roccia, simboli dell’Eucaristia), essi non
rimasero fedeli a Dio e non sfuggirono al suo giudizio. Il richiamo per noi
cristiani è evidente: “Tutte queste cose... sono
state scritte per ammonimento nostro...”. L’appartenenza ufficiale al
popolo di Dio e i Sacramenti non ci “assicurano” magicamente per la salvezza.
Occorrono fedeltà e vigilanza costante: “Chi crede di stare in piedi, guardi
di non cadere”.
L’appello alla conversione che Gesù rivolge è forte e
perentorio, non dà adito a scappatoie.
Prende spunto da due fatti di cronaca nera, da due
tragedie: il massacro di un gruppo di Galilei ad opera
di Pilato e l’incidente di una torre che, crollando, ha schiacciato 18 persone.
Contesta la concezione che la disgrazia è castigo per il peccato, per cui le vittime sarebbero più colpevoli degli altri: “Credete
che fossero più peccatori di tutti i Galilei...di tutti gli abitanti di
Gerusalemme? No, vi dico...”. In effetti, era diffusa la credenza
popolare secondo cui ogni disgrazia è conseguenza e
pena di determinati peccati. E’ un modo di pensare che in un certo senso può
far comodo e tranquillizzare la coscienza: questo male a me non è accaduto;
quindi sono a posto. Una sua versione più moderna, un tentativo di trovare una
spiegazione razionale dei fatti tragici e dolorosi consiste nell’interpretarli
come frutto del caso o come effetto di meccanismi naturali o sociali, evitando
di leggere tali fatti in profondità e di lasciarsi interpellare da essi. Per Gesù, invece, la disgrazia non è
il segno del peccato, perché molte persone, non meno peccatrici delle vittime,
non ne sono state colpite. “Ma se non vi convertite, perirete
tutti allo stesso modo”, cioè vi piomberà
addosso la rovina non solo materiale, ma eterna. Tutti sono peccatori. Ma le disgrazie, di cui alcuni sono vittime, devono servire
da avvertimento provvidenziale. Sono un richiamo a cambiare modo di pensare e
di vivere, scuotendosi dalle illusioni e dalle false sicurezze. Altrimenti si incorrerà in una tragedia smisuratamente più grande
e irreparabile: la rovina eterna. Gesù ci rivolge l’appello a lasciarci
coinvolgere in prima persona dai fatti che accadono. L’appello
a riconoscere negli avvenimenti, anche i più gravi, un segnale che Dio ci offre
perché ci convertiamo sul serio. Ciò significa non solo abbandonare la
credenza superficiale che la disgrazia è effetto del peccato, ma trasformare in
profondità il nostro cuore. Es. se è morta una persona, mentre io sono ancora
vivo, non è un segno che Dio mi dà ancora tempo per convertirmi e non posso indugiare
oltre? Es. davanti a fatti sconcertanti sotto il profilo dell’economia e della
giustizia è facile emettere giudizi e fare analisi. Invece
dovremmo chiederci: Noi non c’entriamo? Non ne siamo per nulla responsabili? Cosa facciamo di concreto per arginare certe tendenze e
avviare una soluzione?
Gesù rafforza il suo appello alla conversione con la
parabola del fico sterile, ricco di fogliame ma senza
frutti, che occupa inutilmente il terreno. Gli viene
concesso un ultimo lasso di tempo. Ma, se continua a restare privo di frutti, verrà tagliato irrimediabilmente. Il messaggio della
parabola è chiaro: “Finché sei in tempo, convertiti!”, cioè
smettila di voltare le spalle a Dio, ma volgi a Lui il tuo cuore. In che modo? Riprendendo o affinando il dialogo con Lui attraverso l’ascolto
della sua parola e la preghiera. Incontrandolo e
amandolo concretamente in ogni prossimo, nel quale ci attende. La
parabola sottolinea la pazienza del “padrone”
che concede ancora tempo perché il fico produca frutti. In tal modo richiama la
pazienza del Padre, che non si stanca di aspettare il ritorno dei figli e offre
ancora l’opportunità per convertirsi. Ciò non può giustificare il disimpegno, ma deve piuttosto spingere ad approfittare della
sua misericordia.
L’intercessione del vignaiolo presso il padrone in
difesa del fico e la sua cura...eccessiva per attivarlo (scavo attorno alla
pianta e concimazione) fanno pensare a Gesù, che gioca
interamente se stesso per portare il popolo alla fedeltà operosa, che Dio attende
da lui. Dio infatti è interessato alla fecondità
spirituale dei suoi fedeli: “Ecco, son tre anni che vengo a cercare
frutti su questo fico, ma non ne trovo”. I “frutti” sono la conversione
concreta, cioè la “fede che opera per mezzo della
carità” (Gal. 5,6). È il rapporto filiale con Dio che si traduce in una
preghiera sempre più centrata su di Lui e nell’attenzione a compiere gesti
d’amore sempre più perfetti. È appunto l’amore, in tutta la ricchezza delle sue
forme, il “frutto” per eccellenza dello Spirito (cfr. Gal. 5,22).
-Da quanto tempo il Signore sta cercando “frutti”
nella mia vita, ma non li trova? Sono io quel fico che continua a deludere il
suo padrone? A circa metà del cammino quaresimale qual è la misura, la qualità
della nostra conversione, cioè della nostra fede e
della nostra carità?
-Nelle occupazioni più varie delle mie giornate posso
chiedermi: In questo momento sono in atteggiamento di conversione, cioè il mio cuore è rivolto al Signore? Ogni volta posso rinnovare tale
scelta e così fare felice Lui, e anche me.
-Come il vignaiolo della parabola, quando scopriamo
che un fratello assomiglia al fico infruttuoso, sappiamo attivarci in suo
favore?
-Modello sublime di conversione è san Giuseppe,
patrono della Chiesa universale, che celebreremo nei prossimi giorni. Uomo
“giusto” (Mt 1,19), che con Maria sua sposa ha condiviso interamente il
“pellegrinaggio della fede” e tale fede l’ha vissuta, anche in condizioni
difficili, come confidenza illimitata in Dio e come obbedienza pronta a ogni sua volontà. A lui, custode della Santa Famiglia,
affidiamo il cammino della nostra comunità cristiana e civile.