"IL FRATELLO"

Non si può andare da soli a Dio, ma si deve andare a Lui con i fratelli, giacché Egli è Padre di tutti.
Dopo Dio e con Dio e per Dio, il fratello è al primo posto.

(Cfr. le stesse parole che Gesú ha risposto al dottore della legge: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente...)
È per il fratello che si passa di continuo da una vita vuota e insignificante alla vita piena: "Siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli".
È nell'amore al fratello che avvertiamo crescere l'unione con Dio.
È con il fratello che si può instaurare già su questa terra il modo di vivere secondo la Trinità, che si può edificare nel mondo un tempio di Dio e sperimentare sin da quaggiù un po' di paradiso.
Non occorrono penitenze eccezionali, perché nell'amore al fratello, nel farsi uno con lui, che richiede il silenzio o la morte del proprio io, c'è la via per demolire il proprio uomo vecchio e perché viva l'uomo nuovo.
E tutto ciò per quale motivo? Perché Cristo, in una maniera o in un'altra, si rende presente in ogni uomo: in chiunque ci accosta noi incontriamo il Signore.
Il fratello non è soltanto un collega, un consanguineo, o uno affidato alla mia guida, o un compagno nella gioia, e nemmeno un rivale nella lotta; il fratello è una creatura amata da Gesú, in cui Gesú, che vi è sempre presente pur in vari modi, deve prendere forma: nel fratello Gesú viene in contatto con me: come dono, come arricchimento, come sprone, come purificazione; nel fratello Gesú vuol essere amato e servito.
I Cristiani, con la grazia di Dio, amano i fratelli, continuamente, anche nelle circostanze piú piccole della vita, ricominciando quando se ne dimenticano, con quella proiezione nei bisogni del fratello, che è il miglior antidoto all'egoismo. Essi dimostrano a fatti che l'amore al fratello non è un ideale irrealizzabile, purché però si voglia rivivere la vita di Gesú nel nostro tempo.


L'UOMO NELL'ANTICO TESTAMENTO

L'immagine di Dio
Ma chi è questo uomo al quale siamo corsi incontro, al quale vogliamo andare incontro?

Cerchiamo di vedere che cosa dice la Rivelazione per comprendere con maggiore profondità ciò che lo Spirito Santo ci ha fatto fare e ci fa fare.

Risaliamo alla Genesi: "E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza". Dio creò l'uomo a sua immagine..." (Gentile. 1,26-27). Questo passo non dice tanto che cosa è l'uomo quanto che cosa intende fare e fa Dio, quindi chi è l'uomo secondo l'intenzione creatrice di Dio. La decisione di creare l'uomo e la creazione dell'uomo a sua immagine sono strettamente legate: ambedue in pratica dicono che il Creatore si accinge a creare qualcuno che ha a che fare con Lui.

A differenza poi di tutti gli altri esseri e degli stessi animali, che la Genesi dice creati "secondo la loro specie", soltanto l'uomo è creato "a immagine di Dio".

L'uomo quindi è l'unico essere che ha un rapporto diretto e personale con Dio: gli sta di fronte, è il suo "tu". Tale rapporto speciale con Dio è costitutivo del suo essere-uomo.

"Il rapporto con Dio non è qualcosa che si aggiunge all'essere-uomo - dice uno studioso di Sacra Scrittura -; anzi, l'uomo è creato in modo che il suo essere-uomo è inteso nel suo rapporto con Dio".

E questo è stupendo e questo è vero! Non è forse l'uomo che "chiama" l'esistenza di Dio, divenendo con ciò la piú grande testimonianza di Lui? Non è l'uomo che sente nel suo cuore - a differenza di tutti gli altri esseri della terra - il richiamo a qualcosa, a qualcuno che lo trascende, l'anelito all'infinito e all'immortale? Non è forse l'uomo che, non trovando soluzione agli innumerevoli problemi che il cosmo propone, alza lo sguardo in cerca di Qualcuno che ci deve essere perché non può non esserci? Cosí fatto è quell'essere che si chiama uomo, quando è puro e sincero.

Non solo, ma, se l'uomo ha senso per il suo rapporto con Dio, la religione non è una delle tante attività dell'uomo: essa deve coinvolgere tutta la sua vita.

"E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza..."".

Scrive Ireneo, Vescovo di Lione: "...gli angeli non avrebbero potuto fare l'immagine di Dio, né alcun altro... Dio non aveva bisogno di costoro per fare ciò che aveva deliberato di fare ... Sono infatti sempre a sua disposizione... il Figlio e lo Spirito... Ad essi egli parla quando dice: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza" (Gen. 1, )".

Nell'uomo infatti Dio ha creato l'umanità nel suo insieme, come qualcuno che sta di fronte a Lui. E l'umanità non può essere che ad immagine di Dio Uno e Trino, se vuol essere come Lui la vuole. Gli uomini devono stare in rapporto d'amore gli uni verso gli altri come lo sono le persone della Trinità, alla cui immagine essi sono stati creati.

Se nell'uomo poi Dio ha creato tutti gli uomini, ponendoli in relazione a Lui, ogni uomo è in questa posizione, è in questa vocazione al di là di tutte le differenze, al di là della diversità di religione e al di là del credere e del non credere.

Anche il Concilio Vaticano II interpreta la frase "a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò", nel senso che essere costituito a immagine di Dio comporta uno speciale rapporto con Dio: l'uomo è capace di conoscere ed amare Dio. Conoscere ed amare Dio non solo nel senso che, essendo suo simile, possa avere rapporto con Lui ma nel senso piú forte che l'uomo è capace di conoscere ed amare, come Dio è unica attività conoscente ed amante se stessa.

Giovanni Crisostomo ci dice come va trattata questa immagine: "Quanti non solo rovesciano le immagini di Dio, ma perfino le calpestano! Quando tu tormenti, maltratti, spogli o abbatti un tuo dipendente non calpesti l'immagine di Dio? ...Mi dirai: "Ma l'uomo non è della stessa natura di Dio!". E con ciò?... Gli uomini, anche se non sono della stessa natura di Dio,... pure sono stati chiamati immagine di Dio e per il loro solo nome meritano lo stesso onore".

Questa immagine non è stata distrutta o persa con il peccato. Afferma Origene: "L'immagine di Dio resta sempre in te, anche se tu sovrapponi a te stesso l'immagine dell'uomo terreno".

Però, pur se non è stata distrutta dal peccato, essa è stata deturpata.

Ecco allora la venuta di Gesú che ripristina l'uomo a immagine di Dio.

Dice Agostino: "...L'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio e, peccando, egli ha corrotto (questa immagine). Il suo bene vero ed eterno gli sarà dunque assicurato se (questa immagine) gli verrà di nuovo impressa (mediante il battesimo)...".

L'uomo creatura di Dio

Se col tema dell'immagine di Dio l'Antico Testamento esprime la grandezza e la dignità dell'uomo, tuttavia esso insegna soprattutto che l'uomo è creatura: creatura di Dio. Quindi, in quanto creatura, l'uomo è, sul piano dell'essere, radicalmente diverso dal suo Creatore e dipende totalmente da Lui. Tale dipendenza deve poi estrinsecarsi sul piano esistenziale. "Il rapporto vivo con Dio fa sempre parte dell'essere pienamente uomo. L'uomo empio è considerato come perduto... e pervertito nel suo essere".

È creatura che va amata

Per l'Antico Testamento inoltre l'uomo è una creatura che va amata. Dio comanda nel Levitico: "Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, cosí non ti caricherai d'un peccato per lui. Non ti vendicherai, e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore".

E in un altro punto: "Il forestiero dimorante fra di voi, lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto".

Il culto e i profeti

Anche se il culto è voluto e stabilito da Dio (cf. Levitico), quando il popolo ebreo credeva di soddisfare Dio soltanto col culto, il Signore inviava i profeti che lo richiamavano ad una conversione interiore e questa si concretizzava nell'amore del prossimo come testimonianza dell'amore verso Dio. Infatti possiamo osservare che dove veniva disprezzata la legge di Dio "nel rapporto da uomo a uomo e si cercava Dio solamente nel culto, lì Dio era ridotto ad una fonte di forza impersonale e magica, che si poteva trattare con routine indaffarata e senza rispetto".

I profeti, vedendo che attraverso un tale culto si arrivava ad una contraffazione della religione nella sua essenza, non avevano altra scelta che rigettare radicalmente questo culto, che suscita lo sdegno e il giudizio di Dio: "Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni... Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne".

"... il Signore ha un processo con gli abitanti del paese. Non c'è infatti sincerità né amore del prossimo... Si giura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue. Per questo è in lutto il paese...".

"...Voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio piú degli olocausti".

"Quando stendete le mani io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto... Imparate a fare il bene; ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova". (Is. 1)

Questa polemica sul culto mostrava "che il giusto rapporto con Dio si decide mediante il giusto rapporto con l'uomo e che il servizio divino della liturgia deve accompagnarsi sempre con il servizio dell'uomo".

In fondo i profeti si sono scagliati "contro un pervertimento di cui, attraverso i secoli, ogni culto umano è minacciato: sacrificio, culto e preghiera conservano il proprio senso solo finché agli uomini importa veramente di incontrare il Dio santo. Ma se con essi l'uomo vuole mettersi al sicuro davanti a Dio, allora essi diventano bestemmia; il sacrificio diventa un mezzo di autogiustificazione, la celebrazione (del culto) occasione di una elevazione meramente sentimentale, la preghiera una chiacchiera senza senso, vile o ipocrita".

Il digiuno che piace a Dio: l'amore del prossimo

E Dio non ama nemmeno l'osservanza del digiuno disgiunta dall'amore al prossimo.

"Grida - dice Dio attraverso Isaia - a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la voce; dichiara al mio popolo i suoi delitti... Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate piú come fate oggi... È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l'uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire chi è nudo, senza distogliere gli occhi dalla tua gente?... Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà; implorerai aiuto ed egli dirà: "Eccomi!"...". (Is. 58, 1-9)

Dopo una cosí severa critica degli abusi commessi nei giorni di digiuno (vv. 3-4), ci si potrebbe aspettare che Isaia confermi questi riti nella loro santità. Invece avviene il contrario (v. 5): non il culto in se stesso, ma queste pratiche rituali (mortificarsi, piegare il capo, usare sacco e cenere, ecc.) vengono contestate radicalmente. Il digiuno gradito a Dio consiste nel mettere al posto di azioni rivolte esteriormente a Dio azioni rivolte all'uomo: in queste l'uomo veramente si mortifica e gli offre una specie di digiuno.

Fra le varie azioni, una piace a Dio particolarmente: sciogliere le catene, liberare dall'oppressione. L'esperienza dell'esilio e della schiavitù in Egitto e poi della liberazione operata da Dio porta Israele ad un nuovo apprezzamento di ciò che è la libertà.

Le altre azioni elencate da Isaia sono quelle tradizionali di aiuto ai bisognosi.

Davanti agli occhi sfila la schiera di coloro che sono socialmente i piú deboli: diseredati, rovinati, schiavi, prigionieri, affamati, vagabondi, straccioni. È un quadro simile a quello dell'ultimo giudizio ,

Dio invita a soccorrerli "senza distogliere gli occhi dalla tua gente": letteralmente sarebbe "non nasconderti, non voltarti (facendo finta di non vedere ) dalla tua carne", cioè da chi è (del)la tua carne, che si può interpretare come riferito ad ogni uomo, non soltanto al connazionale, come si intendeva in genere presso gli ebrei .

Belli questi versi di Giobbe: "...soccorrevo il povero che chiedeva aiuto, l'orfano che ne era privo. La benedizione del morente scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia... Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. Padre io ero per i poveri ed esaminavo la causa dello sconosciuto".

Se si attua tutto ciò che è chiamato "digiuno gradito a Dio", allora si realizzeranno le benedizioni.

L'amore dei nemici

Infine nell'Antico Testamento non mancano accenni all'amore dei nemici: "Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere; perché cosí ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà". (Prov. 25, 21-22)

NEI VANGELI

In alcuni brani Gesú si identifica con gli Apostoli o con i suoi inviati, in altri con i suoi seguaci, in altri ancora con ogni uomo. Lo si comprende dal contesto in cui sono pronunciate le sue parole.

Gesú presente negli Apostoli

La presenza di Gesú nei suoi Apostoli è affermata in tutti e quattro i Vangeli con espressioni che vanno dall'accoglienza, che non è solo ospitalità, all'ascolto dei suoi inviati.

Ecco alcuni esempi. In Matteo: a Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato". (Mt. 10,40).

In Luca: "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato". (Lc. 10,16).

In Giovanni: "In verità, in verità vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato". (Gv. 13,20).

In questo contesto di missione, Gesú si identifica anche col "bambino" e col "piccolo", ma è probabile che Gesú abbia adoperato queste parole per indicare anche qui i suoi inviati.

Vi erano infatti persone mandate da Gesú che non godevano di grande prestigio fra il popolo, che anzi potevano venir disprezzate. Gesú le sostiene, vuole suscitare nelle comunità cristiane amore verso di loro e desidera che cosí facciano i suoi seguaci, perché, per deboli e mediocri che esse siano, portano però la Sua parola. Il principio giudaico dello Shaliah già diceva: "L'inviato (Shaliah) di un uomo è come l'uomo stesso". Nell'Antico Testamento, l'inviato era considerato come "la bocca" di chi l'aveva mandato.

È presumibile dunque che Gesú abbia dato il significato di suoi inviati anche al termine "bambini" in Marco: "Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato" . E lo stesso significato si può pensare che Gesú abbia dato ai "piccoli" in Matteo: "Chi avrà dato anche solo un bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa".

Questa presenza di Gesú nei suoi Apostoli, nei suoi inviati riceve un nuovo valore dopo la morte e risurrezione di Gesú.

Infatti, dopo la sua risurrezione, gli Apostoli sono incorporati in Cristo, e Cristo è presente in loro realmente, misticamente. La loro parola è allora efficace per se stessa e non soltanto perché essi sono incaricati di trasmetterla. Gesú opera in loro. Chi dunque accoglie uno degli Apostoli, dopo la risurrezione di Gesú, fa l'esperienza dell'incontro reale con Lui.

Gesú presente nei discepoli

I Vangeli, inoltre, ci trasmettono affermazioni sulla presenza di Gesú nel cristiano anche nel contesto della vita della comunità formata dai discepoli di Gesú. Le parole sull'accoglienza, che in origine riguardavano solo gli inviati, sono state poi generalizzate e applicate ai rapporti fra i membri della comunità cristiana e, in particolare, alle relazioni con quanti si trovavano in necessità: l'amore portato verso i fratelli piú piccoli e bisognosi deve considerarsi rivolto a Gesú in persona.

Narra Luca: "Frattanto sorse una discussione fra loro, chi di essi fosse il piú grande. Allora Gesú, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: "Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il piú piccolo tra tutti voi, questi è grande"".

Come in altri campi, anche qui Gesú ciò che gli uomini disprezzano, egli lo mette in rilievo. Per i cristiani, di conseguenza, il piú povero, il piú piccolo è, in realtà, il piú grande, il piú importante, perché Gesú si è messo totalmente dalla sua parte, al punto che chi accoglie uno di questi accoglie lui stesso.

Si tratta qui di rapporti fra cristiani e l'intenzione che muove all'amore è coscientemente "soprannaturale": l'accoglienza infatti deve essere compiuta - come dice Gesú - "nel mio nome", con conoscenza di causa dunque e per seguire l'insegnamento del Maestro. Tutta la vita di Gesú è una scuola prodigiosa di questo comportamento verso chi è nel bisogno.

Che Gesú solidarizzi con i suoi seguaci, senza distinzione, ma particolarmente con i fratelli sofferenti, lo dicono anche le parole udite da Saulo presso Damasco dove era diretto per arrestare i cristiani: ""Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?". Rispose: "Chi sei, o Signore?". E la voce: "Io sono Gesú, che tu perseguiti!"".

Nel Vangelo troviamo ancora affermata la presenza di Cristo in ogni uomo, Pensiamo alla visione cosmica del giudizio finale che si conclude con l'affermazione: "...ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli piú piccoli, l'avete fatto a me". (Mt. 25)

NELLE LETTERE DI PAOLO

Gesú presente nei credenti

Vediamo ora che cosa ci dicono sull'argomento le lettere di Paolo. Paolo, piú che l'espressione "Cristo nel credente", usa un'altra espressione: "essere in Cristo". Con quest'ultima (che si trova 164 volte nelle sue lettere), egli vuole indicare l'incorporazione, avvenuta col Battesimo, nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa.

Questa realtà di unità - cioè l'aspetto comunitario messo in luce dall'"essere in Cristo" - viene espressa anche con le parole "Cristo in": "...non c'è piú Greco o Giudeo, ...schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti". Qui si mette in rilievo che, fatti da Cristo, presente in ciascuno, membra del suo Corpo, posti quindi da Lui nell'Unità, che è Cristo, siamo tutti fratelli, al di sopra di ogni precedente divisione di razza, di condizione sociale, di nazionalità.

L'"essere in Cristo" realizza contemporaneamente anche un'unità personale tra il cristiano e Gesú, un'unione cosí profonda da creare nel cristiano un "Io" nuovo. Infatti, in Paolo, la presenza di Gesú nel credente è una presenza di identificazione mistica: il credente diventa un solo essere con Cristo.

Quando Paolo afferma: "...non sono piú io che vivo, ma Cristo vive in me", non parla solo della sua esperienza mistica ma di quell'identificazione del credente con Cristo che è la novità dell'esistenza cristiana e fa di lui un uomo nuovo.

Certo che l'Inabitazione di Cristo nel credente suscita una meravigliosa conseguenza. Egli non dovrà piú preoccuparsi di realizzare se stesso o di programmare il suo futuro, ma di aderire a Cristo che vive in lui e che man mano gli manifesterà il disegno che per lui pensa e lo condurrà in una splendida avventura sconosciuta e grande, grande perché divina.

Il credente "con" Cristo

L'identificazione del cristiano con Gesú non è, certo, un assorbimento. Essa implica una comunione di vita, quindi è dialogo, dinamismo, crescita, finché, come dice ancora Paolo, "sia formato Cristo in voi".

Per esprimere questa misteriosa partecipazione alla vita di Gesú, Paolo usa l'espressione "essere con Cristo". Anzi, conia nuovi verbi con la particella greca sun (= con) per far capire che la vita del cristiano è conforme a quella di Cristo: un'esperienza di morte e di risurrezione.

"Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati...".

"...il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui...".

"Se moriamo con lui, vivremo con lui".

"...siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua..." "...ci ha fatti rivivere con Cristo...".

NEGLI SCRITTI DI GIOVANNI

Gesú nel credente

Anche Giovanni, come Paolo, ha un modo suo per parlare della presenza di Gesú nel cristiano. È caratteristica la sua formula: il credente in Cristo e Cristo nel credente. Vi è dunque per lui una mutua Inabitazione.

Ne parla a proposito dell'Eucaristia: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui". (Gv. 6,56).

È consolante la parola "dimora" perché dà l'idea di un'immanenza reciproca non momentanea, ma permanente. Siamo dunque tutto il giorno in unione con Cristo. Ed è una compenetrazione profonda che non ha paragoni nel campo umano.

Giovanni, riguardo a questa immanenza, riporta l'esempio, cosí appropriato, della vite e dei tralci. "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla". "Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato". (Gv. 15)

Giovanni parla ancora di quest'immanenza reciproca nel capitolo 17, come ad esempio, quando dice: "Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità...".

Giovanni non parla soltanto della presenza di Cristo nel credente, ma dice esplicitamente che la stessa Trinità viene a dimorare in lui.

Nel lungo tratto del capitolo 14, 15-23, una prima parte (16-17) tratta della presenza, nel credente, dello Spirito Santo, la cui venuta è legata alla partenza di Gesú e il cui compito è quello di rendere presente Gesú nel credente. Prima della morte di Gesú, infatti, il discepolo rimaneva come all'esterno di Lui. Dopo la sua risurrezione, per lo Spirito Santo, si realizza nel credente la presenza interiore di Cristo glorioso. Di qui il nuovo rapporto del credente con Gesú.

Ecco come Giovanni si esprime: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli dimora presso di voi e sarà in voi".

In una seconda parte (18-20), Giovanni dice che la caratteristica di Gesú risorto è quella di essere presso il Padre, dove, attraverso il Cristo, può essere anche il credente e, lui, pure, in un rapporto nuovo col Padre: "Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi....In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi".

Nella terza parte (21-23), c'è la condizione richiesta dal Risorto per esser presente nel credente: la fedeltà ai suoi comandamenti, che ha per effetto una maggiore illuminazione interiore. Se sarà cosí, la Trinità prenderà dimora nel credente: ""Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui" ... "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui..."". Cosí commenta M. J. Lagrange quest'ultimo commovente versetto: "Nulla è richiesto come cultura intellettuale.... né come tendenza alla contemplazione, né come ascesi particolare; Dio non viene per provocare l'estasi o qualche altra manifestazione esteriore: Egli viene per abitare nell'anima di colui che Lo ama. Niente di piú semplice nell'espressione di questa mistica, niente di piú profondo".

Anche nella sua prima lettera, oltre che nel Vangelo, Giovanni afferma questa mutua Inabitazione, ma la variante sta nel fatto che invece di parlare di Gesú, parla di Dio. Il contenuto però non cambia, perché la presenza di Dio implica quella di Cristo e, nella prima lettera, Giovanni afferma in modo unico che Gesú Cristo è Dio.

Poco sopra Giovanni aveva ribadito e chiarito la condizione per cui Dio rimane in noi e noi in Dio, l'osservanza dei suoi comandamenti che egli riassume in due: credere in Gesú ed amarsi a vicenda.

Giovanni dice ancora che chi garantisce che Dio vive in noi è lo Spirito, lo Spirito che suscita in noi la confessione di fede in Gesú e l'amore reciproco.

Giovanni dice: "Dio è amore; chi sta nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui", perché appunto l'amore, l'amore reciproco, che suppone la fede, è la condizione per rimanere in comunione con Dio.

E che Dio sia amore e che come tale abiti in noi lo mostra questo splendido versetto dell'Apocalisse, opera ancora di Giovanni.

Sentitelo, è delizioso: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò a lui, cenerò con lui ed egli con me". Cenare con Gesú. Sì, quando l'anima prova la felicità profonda dell'intimo colloquio con Dio, ha l'impressione di consumare un pasto d'amore con Lui.