La parrocchia nel Vaticano II

di FRANZ KNITTEL e HUBERTUS BLAUMEISER

Nell'affrontare il nostro tema, c'è un fatto che lascia stupiti: per quanto la parrocchia sia nella vita quotidiana della Chiesa una realtà di primissimo piano, essa non figura tra i temi principali del Concilio Vaticano II. Ciò non vuol dire evidentemente che la parrocchia nella riflessione del Concilio sia stata assente. II discorso del Concilio inizia però più a monte. È innanzi tutto un formidabile approfondimento del mistero della Chiesa, e di questo mistero in particolare sviscera il dinamismo profondo: l'unità - unità che è comunione; unità che non esclude quindi la varietà ma la presuppone come sua dimensione intrinseca; unità che quotidianamente si fa nella comunione dei vescovi attorno al Papa, nel convenire delle molte chiese locali nell'unica ed universale Chiesa di Cristo.

Qui sta dunque il cuore della riflessione ecclesiologica del Concilio. Quanto si dice della parrocchia non è che il coerente proiettarsi di questo approfondimento sul vissuto delle chiese diocesane. Il tutto rimane solo abbozzo; resta quindi da esplorare con la vita e da sviluppare a contatto con l a concretezza delle diverse situazioni. Ma nondimeno il Concilio, nelle poche affermazioni dedicate direttamente alla parrocchia, ha disegnato una luminosa immagine di ciò che può e deve essere la parrocchia. È soprattutto da queste affermazioni esplicite che in questo studio prendiamo le mosse, data l'impossibilita di esaurire su poche pagine un tema tanto ricco di spunti.

1. La parrocchia chiesa sul posto

Rievochiamo solo brevemente quella definizione piuttosto descrittiva della parrocchia che il Vaticano II da al n. 42 della Sacrosanctum Concilium e che ha fatto il suo ingresso anche nel nuovo Codice di Diritto Canonico (can. 515,1): la parrocchia e

- una comunità di fedeli

- organizzata localmente

- sotto la guida di un pastore che fa le veci del vescovo.

Se ci fermassimo a questa sintetica descrizione non avremmo infatti ancora colto il pensiero profondo del Vaticano II che, anche nel guardare alla parrocchia, scava nel mistero della Chiesa e giunge così ad un'idea di respiro vastissimo: la comunità parrocchiale non è altro che la Chiesa che si rende presente sul posto: non una porzione di Chiesa, ma la Chiesa stessa, la Chiesa in loco. Lo si afferma sin dal primo documento del Concilio:

«...le assemblee locali di fedeli, tra cui hanno un posto preminente le parrocchie (...) rappresentano in certo modo la chiesa visibile stabilita su tutta la terra» (SC 42) (3).

E lo si riafferma nella Lumen Gentium al n. 26:

La «chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali di fedeli le quali, aderendo ai loro pastori, sono anche esse chiamate chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, nella loro sede, il popolo nuovo chiamato da Dio, nello Spirito Santo e in una totale pienezza » (LG 26).

Ecco, dunque, cos'è secondo il Vaticano II la comunità parrocchiale: presenza della Chiesa intera ovvero - come ha detto qualche teologo - «sacramento» della Chiesa universale che in essa è realmente presente.

A questo punto occorre però fare una precisazione: secondo i testi che stiamo analizzando soltanto la diocesi è «chiesa» in senso pieno. La parrocchia lo è in maniera subordinata, per quanto cioè è vitalmente inserita nel contesto della propria chiesa locale ed unita attraverso i suoi pastori al vescovo (cf. SC 42; LG 26 e 28, CD 30). Viene cosi in luce un'ulteriore definizione che il Concilio da della parrocchia: essa è «come una cellula» della diocesi (AA 10).

Posta questa premessa, la comunità parrocchiale viene dunque ad essere in un modo misterioso ma reale Chiesa. Ma lo può essere - e questa e un'importantissima conseguenza dell'idea che il Vaticano II ha della parrocchia -

solo se e aperta su tutta la Chiesa. Per l'intimo mistero della Chiesa che fa sì che in ogni parte sia il tutto, non c'è nulla di ciò che riguarda la Chiesa dispersa nel mondo che non riguardi in qualche modo anche la singola comunità parrocchiale. Potremmo pertanto dire con una formulazione che suona paradossale: la parrocchia è se stessa solo se è anche al di là di se stessa.

Parlando dell'apostolato dei laici il Concilio ne trae le conseguenze ed esorta i parrocchiani:

« (...) non limitino la loro cooperazione entro i confini della parrocchia o della diocesi, ma procurino di allargarla all'ambito interparrocchiale, interdiocesano, nazionale o internazionale, tanto più che il crescente spostamento delle popolazioni, lo sviluppo delle mutue relazioni e la facilità delle comunicazioni non consentono più ad alcuna parte della società di rimanere chiusa in se stessa. Così abbiano a cuore le necessita del popolo di Dio sparso su tutta la terra» (AA 10).

In questo stesso contesto si allude anche al dovere della comunione dei beni:

«Anzitutto facciano proprie le opere missionarie fornendo aiuti materiali o anche personali. È infatti dovere e onore dei cristiani restituire a Dio parte dei beni che ricevono da lui» (ibid).

Vengono a loro volta, nel Decreto sui vescovi, esortati i parroci e i loro cooperatori: essi «devono svolgere la loro funzione (...) in modo che i fedeli e le comunità parrocchiali si sentano realmente membri non solo della diocesi, ma anche della chiesa universale» (CD 30).

E perciò:

«Collaborino (...) sia con gli altri parroci, sia coi sacerdoti, che esercitano l'incarico pastorale in quel territorio» (ibid.).

2. La parrocchia generata da Cristo

Se la parrocchia è Chiesa, cos'è che la fa tale ?

Il già citato n. 26 della Lumen Gentium accenna a tre principi vitali i quali sono costitutivi della Chiesa nelle sue assemblee locali: l'annuncio della Parola, la celebrazione della eucaristia (che presuppone la comunione gerarchica) ed infine l'unita nella carità . Leggiamo per intero il brano:

«In esse (cioè nelle legittime assemblee locali di fedeli) con la predicazione del vangelo d i Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della cena del Signore, "affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore sia strettamente unita tutta la fraternità del corpo». In ogni comunità che partecipa all'altare, sotto il ministero sacro del vescovo, viene offerto il simbolo di quella carità e "unita del corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza" » (LG 26).

Vale la pena fermarci per qualche momento su ciascuno dei tre principi.

a) L'annuncio della Parola. Secondo il Concilio da esso nasce la comunità. La Parola raduna i fedeli (cf. LG 26, PO 4). Suscitando nei loro cuori la fede, la speranza e la carità li rende comunità e fa si che essi «crescano in Cristo» (CD 30, cf. PO 4). Da qui l'enorme importanza che assume nella vita delle comunità cristiane la Parola di Dio. Parola che è da annunciare e da approfondire nei modi più vari: non solo attraverso la predicazione e l'istruzione catechistica, ma anche attraverso la testimonianza di vita e attraverso la riflessione sui problemi del proprio tempo alla luce di Cristo, onde «applicare la perenne verità del vangelo alle circostanze concrete della vita» (PO 4; cf. LG 28 e 35, CD 30, AA 6).

b) La celebrazione del sacrificio eucaristico in comunione col vescovo. Il Concilio ravvisa in essa - e specialmente nella messa domenicale - «il centro e il culmine di tutta la vita della comunità cristiana» (CD 30; cf. SC 42, PO 5). È in essa infatti che i cristiani sempre di nuovo vengono trasformati in Corpo di Cristo, uno con Lui e tra loro (cf. LG 7). Come «culmine» l'eucaristia è punto di arrivo e di convergenza di tutte le attività della Chiesa.

Ed e punto di partenza fonte di vita (cf. SC 10). Numerosi passi del Concilio parlano del ruolo centrale che l'eucaristia occupa nella vita della comunità. Leggiamone solo uno, a mo' di esempio:

«(...) non è possibile che si formi una comunità cristiana se non avendo come radice e come cardine la celebrazione della sacra eucaristia, dalla quale deve quindi prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità. E la celebrazione eucaristica, a sua volta, per essere piena e sincera deve spingere sia alle diverse opere di carità e al reciproco aiuto, sia all'azione missionaria e alle varie forme di testimonianza cristiana» (PO 6).

Spesso in questo contesto il Vaticano II amplia il discorso a tutta la vita liturgica e sacramentale (cf. SC 42 CD 30, PO 5). E veniamo al terzo principio sui quale, secondo il Concilio, poggia la vita della comunità cristiana.

c) L'unità nella carità. Essa e l'anima e il tipico stile di vita della comunità la quale - secondo Lumen Gentium 28 - e appunto «famiglia di Dio, fraternità animata dallo spirito di unità» ed ha per sua «legge» - assieme a tutto il nuovo popolo di Dio - «il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati» (LG 9). Sono concetti sui quali dovremo tornare.

Riassumiamo: Parola, eucaristia e carità fanno la comunità. Ma ciò vuol dire: tutta la sua vita è dono. Non siamo noi, in primo luogo, a fare la comunità, ma è Cristo che la genera nello Spirito. La comunità si «riceve », e in questo senso la sua vita non può essere che vita mariana. Rivivendo Maria, la «piena di grazia», la comunità cristiana acquista la sua altissima dignità: diventa «segno della presenza di Dio nel mondo» (AG 15). E allora vale quanto ancora dice il n. 26 della Lumen Gentium dal quale eravamo partiti:

«In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, e presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (LG 26).


3. La parrocchia comunità missionaria

L'identità della comunità cristiana come la disegna il Vaticano II è un'identità tutta relazionale, e questo non solo nel senso che la comunità - come abbiamo appena visto - non è se non ricevendosi, ma anche nel senso che essa non è se non donandosi.

a. La missione della parrocchia

La comunità parrocchiale per il Vaticano II è tale se è tutta missionaria:

«La grazia del rinnovamento - dice il Decreto Ad Gentes - non può crescere nelle comunità, se ciascuna di esse non allarga gli spazi della carità sino ai confini della terra dimostrando per quelli che sono lontani la stessa sollecitudine che ha per coloro che sono suoi propri membri» (AG 37).

Missione non solo di tutta la Chiesa, ma di ogni comunità locale e «aprire a tutti gli uomini la strada che conduce a Cristo» (PO 6), essere, assieme a tutto il popolo di Dio, « segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unita di tutto il genere umano» (LG 1).

Con l'aiuto dei parrocchiani, i parroci devono estendere la cura delle anime «a tutti gli abitanti della parrocchia» (CD 30) e «rendere a tutti la testimonianza della verità e della vita»: ai fedeli e agli infedeli, ai cattolici e ai non cattolici (LG 28).

Ecco, dunque, la missione della parrocchia come il Concilio ce la presenta: arrivare a tutti, coinvolgere anche i più lontani, realizzare nel proprio territorio il Testamento di Gesù: «che tutti siano uno» (cf. Gv. 17).

b. Come realizzarla: unità e carità

L'unità di tutti con Dio e tra di loro è il punto di arrivo cui mira la vita della parrocchia. Punto di partenza non è che la stessa vita di comunità:

«La Parrocchia - si dice nel Decreto sull'apostolato dei laici - offre un luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le differenze umane che vi si trovano e inserendole nell'universalità della chiesa».

La vita di comunione è già di per se testimonianza - motivo per cui, fra il resto, il Concilio raccomanda «caldamente» la vita comune dei sacerdoti (CD 30) ed indica tra i principali doveri del parroco la formazione di un'autentica comunità (PO 6) - perché in essa «è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (LG 26).

Non possiamo qui approfondire le numerose espressioni che in concreto assume la missione e quindi la testimonianza della comunità cristiana. Secondo i documenti conciliari svolgono fra di esse un ruolo di primissimo piano la carità verso tutti, specialmente verso i poveri e gli ammalati (cf. CD 30, AA 8, PO 6 ecc.), il coerente impegno dei laici di instaurare nella società civile un ordine di giustizia e di carità (cf. AA 7, AG 15 e 19 ecc.) ed infine l'annuncio diretto della Parola (cf. AA 6, PO 4 ecc.). Né possiamo analizzare più a fondo alcune opzioni preferenziali che il Concilio addita nell'ambito della missione della comunità parrocchiale - i giovani, le famiglie, gli operai, i poveri, i più deboli (cf. CD 30 e PO 6) - o l'interessante fatto che il Concilio stimola le comunità a testimoniare la loro fede assieme agli altri cristiani (cf. AA 27, AG 15 e 36). Vorremmo invece almeno accennare all'importanza che il Concilio attribuisce alle associazioni

- le quali «sono di sostegno ai propri membri e li formano all'apostolato, dispongono bene e guidano la loro azione apostolica» (AA 18) - e l'apostolato associato in generale:

«(...) l'apostolato associato corrisponde felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fedeli e al tempo stesso si presenta come segno della comunione e dell'unità della chiesa in Cristo che disse: "Dove sono due o tre riuniti in mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18 20)» (ibid).

«Perciò - prosegue la Apostolicam Actuositatem - i fedeli esercitino il loro apostolato in spirito di unità ... e di carità», potremmo soggiungere rifacendoci al n. 6 dello stesso documento nel quale si afferma che «ogni esercizio di apostolato deve trarre origine e vigore dalla carità» (AA 6).

Unità e carità - possiamo concludere - sono l'anima non solo della vita della comunità parrocchiale al suo interno ma sono anche il cuore della sua missione. Missione per la quale la comunità cristiana si può ancor una volta rispecchiare in Maria, perché è missione materna:

«(...) mediante la carità, la preghiera, l'esempio e le opere di penitenza, la comunità ecclesiale esercita una vera azione materna nei confronti delle anime da avvicinare a Cristo» (PO 6).

4. La parrocchia comunione di carismi e ministeri

L'idea di parrocchia che troviamo nei documenti del Vaticano II non è di certo quella di un gregge che segue passivamente i propri pastori. Nella comunità matura non ci sono protagonisti e consumatori, ma tutti sono membri attivi. L'immagine forse più bella di questa convivenza-comunità la troviamo nella Lumen Gentium al n. 32. È una pagina che vale la pena riascoltare:

« La santa chiesa è, per divina istituzione organizzata e diretta con una mirabile varietà. "A quel modo, infatti, che in uno stesso corpo abbiamo molte membra, e nessun membro ha la stessa funzione; cosi tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo essendo, ciascuno per parte sua, membra gli uni degli altri" (Rom 12, 4-5) (...). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli per l'edificazione del corpo di Cristo. La distinzione infatti posta dal Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo di Dio include l'unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati tra loro da un comune necessario rapporto: i pastori della chiesa sull'esempio del Signore siano al servizio gli uni degli altri e degli altri fedeli, e questi a loro volta prestino volentieri la loro collaborazione ai pastori e ai dottori. Cosi nella varietà tutti danno la testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo: poiché la stessa diversità di grazie di servizi e attività raccoglie in un solo corpo i figli di Dio, dato che "tutte queste cose opera un unico e medesimo Spirito" (I Cor 12,11) I laici, quindi, come per condiscendenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo il Signore di tutte le cose, è venuto non per essere servito ma per servire (cf. Mt 20, 28); cosi hanno per fratelli coloro che, posti nei sacro ministero, insegnando, santificando e reggendo con l'autorità di Cristo la famiglia di Dio, la pascono in modo che sia da tutti adempiuto il nuovo precetto della carità» (LG 32).

Evidenziamo e sviluppiamo brevemente alcune delle affermazioni contenute in questo passo:

- È comune a tutti i fedeli l'azione per la edificazione del corpo di Cristo (cf. LG 33; AA 2-3, PO 4);

- ma non tutti la svolgono allo stesso modo, bensì ciascuno secondo il proprio carisma, secondo il dono cioè che lo Spirito gli ha conferito a vantaggio di tutti (cf. LG 12).

- È essenziale il ruolo dei ministri ordinati, i quali nelle singole comunità locali «rendono visibile la chiesa universale» e «presente il vescovo» (LG 28) e come tali hanno per compito di insegnare, santificare e di presiedere con l'autorità di Cristo la famiglia di Dio «in modo che sia da tutti adempiuto il precetto della carità» (LG 32).

- La distinzione essenziale tra ministri ordinati e laici non annulla però l'uguaglianza fra tutti riguardo alla ineguagliabile dignità di figli di Dio e riguardo alla chiamata di concorrere all'edificazione del corpo di Cristo.

- Nel lavoro comune, i laici non sono semplici collaboratori dei loro presbiteri, ma gli uni devono essere vicendevolmente al servizio degli altri. I laici infatti -dice la Lumen Gentium al numero successivo - «sono tutti deputati dal Signore stesso» all'apostolato (per mezzo del battesimo e della confermazione) (LG 33; cf. AA 3).

- Il rapporto fraterno che ne consegue (cf. LG 32, AA 25, PO 9) non toglie che ogni carisma deve venir esercitato in accordo con coloro «che presiedono nella chiesa» (LG 12 cf. AA 24).

- «Così nella varietà tutti danno la testimonianza della mirabile unita nel corpo di Cristo» (LG 32).

Il Concilio evidentemente si è chiesto come ciò possa realizzarsi, e a tal scopo ha raccomandato l'istituzione di una serie di consigli sia a livello diocesano che parrocchiale, «nei quali collaborino convenientemente clero e religiosi con laici» (AA 26). Secondo il nuovo Codice di Diritto Canonico ogni parrocchia dovrebbe possedere due di questi consigli: il consiglio pastorale parrocchiale (can . 53 6) e il consiglio per gli affari economici (can. 537). In realtà il Concilio aveva previsto addirittura una molteplicità di consigli «che aiutino il lavoro apostolico della chiesa, sia nel campo dell'evangelizzazione e della santificazione, sia in campo caritativo, sociale e altri» (AA 26) (10); consigli che qua o là sono effettivamente nati nelle comunità parrocchiali, ad esempio come gruppi di lavoro o commissioni che fanno capo al consiglio pastorale.

Pur con le debite distinzioni, l'istituzione di questi consigli si pone in linea con quella riscoperta della dimensione comunitaria nel governo della Chiesa che, al livello del Concilio Vaticano II, ha trovato la sua maggiore espressione nella decisa riaffermazione della collegialità dei vescovi.

Conclusione

Riassumiamo i risultati della nostra ricerca: la parrocchia

- è Chiesa, e la Chiesa sul posto

- come Maria, e generata da Dio ed a sua volta e generatrice:

- è comunione, è unita, nella varietà dei carismi e ministeri.

Volendo sintetizzare questi tre dati e attingendo alla profonda fonte ispiratrice dell'insegnamento conciliare, potremmo dire che in qualche modo il Vaticano II concepisce la comunità parrocchiale alla luce della SS. Trinità.

Naturalmente quanto diciamo vale in senso pieno per la diocesi, e di conseguenza per la parrocchia in quanto «cellula» della diocesi.

1. La parrocchia è Chiesa: come ciascuna delle tre divine Persone è Dio così ogni comunità parrocchiale è Chiesa. Dall'altra parte come nessuno dei Tre è Dio da solo ma assieme agli altri due portandoli, per la pericoresi trinitaria, in un certo senso in sé ed allo stesso tempo trascendendosi continuamente in essi, cosi nessuna comunità cristiana è Chiesa da sola, ma è Chiesa solo assieme a tutte le altre, trascendendosi in esse nel contesto della diocesi e della Chiesa universale, portandole nello stesso tempo - per il dono misterioso della grazia che richiede la corrispondenza - tutte in sé.

2. La parrocchia è Maria: riceve tutta la sua vita da Dio e a sua volta tutta la dona. L'identità della parrocchia è infatti tutta relazionale: l'origine, l'essere e l'agire della parrocchia formano un'inscindibile unità. In ciò la parrocchia rispecchia ancor una volta in qualche modo la Trinità, l'originale modo d'essere delle divine Persone che non sono se non essendo Amore: eterno ricevere e donarsi.

3. La parrocchia è comunione, unità nella varietà: come in Dio la radicale diversità dei «ruoli» - se cosi si potesse dire - non compromette l'uguaglianza dei Tre che sono Dio ciascuno, cosi nella comunità parrocchiale la varietà dei carismi e ministeri non deve affatto significare disuguaglianza. Per una misteriosa ma reale partecipazione all'ineffabile comunione delle tre divine Persone, ogni membro della comunità cristiana è per gli altri e negli altri.

Ma ciò ci induce a concludere: nella sua dimensione più profonda la parrocchia non è che vita trinitaria manifestazione e partecipazione alla vita della SS. Trinità (11). Non a caso il 1° capitolo della Lumen Gentium conclude la sua presentazione (peraltro trinitaria) del mistero della Chiesa con l'antica e famosissima espressione di Cipriano che in qualche modo si addice anche alla parrocchia:

La Chiesa è «un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4).