Il fariseo e
il pubblicano

Luca 18, 9-14

 

Gesù racconta la parabola per denunciare due disposizioni sbagliate, opposte al comportamento evangelico: la presunzione di essere giusti di fronte a Dio e il sentirsi superiori agli altri (18,9). È curioso notare come i due atteggiamenti siano legati e come il secondo dipenda dal primo. Il fariseo che presume di sé ed è sicuro della propria giustizia è anche un giudeo zelante e spietato nei confronti del suo prossimo: " Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini ..... o anche come questo pubblicano". Ed è curioso notare come la parabola presenti due atteggiamenti di preghiera, ma poi finisca con il descrivere due modi diversi di vivere.

Anche questo è un dato interessante: la preghiera rivela qualcosa che va oltre se stessa. Di conseguenza ciò che va raddrizzato non è anzitutto la preghiera (essa è frutto di qualcosa che la precede), bensì il modo di concepire Dio e la salvezza, se stessi e il prossimo.

La parabola ha due protagonisti, ciascuno dei quali incarna un modo diverso di porsi davanti a Dio e agli altri.

 

Il fariseo in preghiera

Egli dice la verità. È vero che osserva scrupolosamente la legge e ha grande spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più (digiuno, pagamenti...).

Il suo torto non sta nell’ipocrisia, bensì la fiducia nella propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio, si sente perfettamente a posto e non attende la misericordia di Dio, non si aspetta la salvezza come un dono, ma come un premio che gli è dovuto per il bene fatto. Uno cui Dio deve pur qualcosa: se non ci fosse lui a tenere in piedi la baracca.....

La preghiera del fariseo è quella di un credente soddisfatto. Non è una richiesta, non esprime nessuna attesa nei riguardi di Dio. La sua preghiera è un rendimento di grazie, ma non per i doni e benefici che il credente è cosciente di dovere completamente alla grazia di Dio. Pensiamo, per esempio, al Magnificat (Lc1, 46-55): Maria proclama tutto ciò che Dio ha fatto per lei, per il suo popolo e per i piccoli. "Ha guardato l’umiltà della sua serva", "Ha spiegato la potenza del suo braccio", "Ha rovesciato i potenti dai troni", ecc. Tutti questi verbi sintetizzano con stupore le manifestazioni della gratuita benevolenza divina. La preghiera del fariseo si apre come quella di Maria: "O Dio ti rendo grazie.....", "L’anima mia magnifica il Signore...". Ma il seguito è diverso: "Io....io....io....". Insomma ti ringrazio non per quello che hai fatto per me, ma per quello che io faccio per te, non per i tuoi benefici, ma per la mia virtù.

La preghiera del fariseo, dietro l’apparente devozione e pietà, è una preghiera atea. Dio è la copertura di un "io" ricco, che strumentalizza il rapporto religioso per la propria esaltazione.

Da notare che la preghiera del fariseo non risulta neppure del tutto inedita. Infatti, ricalca un modulo talmudico che suona così: " Ti ringrazio, Signore mio, per avermi fatto partecipare alla compagnia di coloro che siedono nella casa d’insegnamento, e non a quella di coloro che siedono nell’angolo della strada; infatti come loro mi metto in cammino; ma me ne vado verso la Parola della Legge, e questi, invece, vanno in fretta verso cose futili. Mi do da fare, e anche quelli si danno da fare: mi impegno e ricevo la mia ricompensa; ed essi si impegnano, ma non ricevono alcuna ricompensa. Corro e corrono essi; corro verso la vita del mondo futuro ed essi corrono verso la fossa della perdizione".

Non dobbiamo essere troppo severi con il fariseo, perché ci assomiglia. Egli dice "O Dio ti ringrazio..." facendo quindi risalire a Dio in certo modo la propria giustizia. Ma questa consapevolezza di un’originaria dipendenza da Dio si perde lungo la strada: non è l’origine di tutti i suoi sentimenti. Tanto è vero che - a parte quel "ti ringrazio" detto all’inizio - non prega: non guarda a Dio, non si confronta con lui, non attende nulla da lui. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c’è nulla della preghiera.

 

Il pubblicano in preghiera

I pubblicani erano gli incaricati della riscossione dei dazi sull’importazione e l’esportazione delle merci. Erano al servizio degli odiati invasori romani. All’esosità delle tasse statali si aggiungeva l’ingordigia degli stessi dazieri. Per questo erano considerati pubblici peccatori e nell’elenco si trovavano accanto ai ladri, alle prostitute, agli adulteri e ai pagani.

Il suo atteggiamento nella preghiera è l’opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: "O Dio sii misericordioso con me peccatore".

Dice la verità: è certamente peccatore, la sua posizione è quella che egli descrive. La sua umiltà non consiste dunque nell’abbassarsi. Ma è consapevole di essere peccatore, si sente bisognoso di cambiamento e sa di non poter pretendere nulla da Dio.

Non ha nulla da vantare e non ha nulla da esigere, può solo chiedere. Fa affidamento su Dio, non su stesso. È questo l’atteggiamento umile che Gesù loda: non elogia la sua vita di pubblicano, come non ha disprezzato le opere del fariseo.

La conclusione è sconcertante. Perché questo capovolgimento delle posizioni, tutt’altro che infrequente nel Vangelo? Vediamo di capire.

Dio non condanna certo le opere buone del fariseo, ci mancherebbe altro. Né tantomeno approva la disonestà dell’esattore.

Semplicemente la condotta dell’uno si traduce in un atteggiamento sbagliato di fronte a Dio e nei confronti del prossimo. Mentre la condotta peccaminosa dell’altro sfocia nell’atteggiamento "giusto" nella preghiera.

La parabola non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano. La sue opere sono buone e tali restano. Non sono le sue opere ad essere criticate, ma il modo di considerarle.

E non perché egli le attribuisce a se stesso, come a volte si dice. In realtà le attribuisce a Dio: "Ti ringrazio". L’errore sta nel guardare Dio alla luce delle proprie opere (calcolarle, vantarle, confrontarle...).

Per Gesù invece lo sguardo deve sempre andare dall’alto al basso, non dal basso all’alto: da Dio a noi, non da noi a Dio.

Il pubblicano viene giustificato perché riconosce di essere peccatore. Non si scusa. Non guarda in direzione del fariseo (non dice "quello va sempre in chiesa, ma è peggio degli altri", e neppure "preferisco essere quello che sono" e nemmeno "in fondo sono più onesto di lui, anche se si dà tutte quelle arie di persona devota"). Non cade nell’errore di sentirsi buono (o meno cattivo) confrontandosi con gli altri, a spese dei difetti altrui.

È un particolare quello che squalifica il fariseo e sbriciola il suo monumento. Ed è proprio un particolare quello che salva il pubblicano.

Forse le poche parole smozzicate (o Dio abbi pietà di me peccatore). Quel gesto semplicissimo (si batteva il petto). O lo sguardo (non osava alzare gli occhi al cielo). Oppure, forse, le tre cose insieme.

All’apparenza sono dei dettagli, ma che risultano decisivi.

Insomma basta un dettaglio per indicare se si è veri davanti a Dio.

I due atteggiamenti contrastanti sono da accostare a quelli dei due figli nella parabola di Lc.15, ma riportati in ordine inverso. "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio", così confessa il figlio più giovane, esprimendo la stessa coscienza del peccato e gli stessi sentimenti di indegnità del pubblicano.

Il figlio maggiore invece fa notare al padre: "Ecco da tanti anni ti servo, senza aver mai trasgredito uno solo dei tuoi comandi".

L’accostamento è tanto più indicato in quanto Luca si era preoccupato di precisare che questa parabola era rivolta soprattutto ai farisei che rimproveravano a Gesù il suo atteggiamento verso i peccatori. Così i farisei erano anticipatamente identificati con il figlio maggiore che rinfaccia a suo padre l’atteggiamento accogliente verso il figlio più giovane.

Nell’ordine della salvezza e della relazione con Dio non si può pretendere nulla da Lui. L’atteggiamento che insidia il credente non è solo quello del reclamo, ma anche quello dell’autosufficienza.

La vita spirituale non si può vivere come una relazione di contropartita, che si aspetta da Dio la salvezza come un diritto. Ma neppure può essere vissuta come se dipendesse semplicemente dalla iniziativa privata, come il risultato di capacità personali, in cui il credente potrebbe condurre da solo la sua barca. "Tutto è grazia" non soltanto nel condurre a termine l’avventura spirituale, ma in tutto il suo compiersi.

Qualcuno dirà: una giustificazione senza conversione! Il racconto indica alla fine che il pubblicano se ne è andato a casa giustificato e perdonato, non testimonia però che si sia convertito. È vero. La parabola non dice nulla delle disposizioni del pubblicano di cambiare vita, perché non è su questo che vuole richiamare l’attenzione. Ciò che il racconto vuole evidenziare è il contrasto tra i due atteggiamenti fondamentali di fronte a Dio.

"Fare la verità nel profondo del tuo cuore": tale l’atteggiamento senza cui non può esistere un’autentica relazione con Dio. Quale posto ha Dio nella vita del fariseo soddisfatto di se stesso e dei suoi comportamenti spirituali? Chi pensa di avere tutto non ha bisogno di Dio. Al contrario, colui che conosce la sua miseria sa che non può avere fiducia in se stesso, perciò Dio può entrare nella propria vita. Esprime molto bene ciò un certo teologo poeta che cerca di tradurre un’intuizione del Poverello di Assisi, in perfetto accordo con la prospettiva fondamentale del racconto di Luca:

 

Prakash era un sant’uomo ed era molto fiero di esserlo. Desiderando vedere Dio, fu ovviamente felice quando il Signore gli parlò in sogno: "Prakash, vuoi davvero vedermi?".

"Certo che lo voglio" rispose Prakash con fervore. " È il momento che ho tanto atteso. Mi basterebbe vederti anche solo per un attimo".

"Così sarà, Prakash. Sulla montagna lontana da tutto e da tutti, io ti abbraccerò".

Il giorno seguente Prakash, il sant’uomo, si svegliò eccitato, dopo una notte agitata. La vista della montagna e il pensiero di vedere Dio a faccia a faccia lo faceva quasi camminare ad un palmo da terra.

Poi cominciò a pensare con ansia che cosa avrebbe potuto portare in dono a Dio. Di certo il Signore si aspettava un regalo, ma che cosa poteva portargli che fosse degno di lui?

"Ho trovato!", pensò Prakash. "Gli porterò il mio bel vaso nuovo. Non ha prezzo e gli piacerà... Ma non posso portarglielo vuoto. Dovrò metterci dentro qualcosa".

Pensò a lungo e intensamente a che cosa mettere nel suo vaso pregiato. Oro? Argento? Diamanti o altre gemme? Dopo tutto, Dio stesso aveva creato tutte queste cose ed era dunque degno di un dono molto più prezioso.

"Ma certo!", pensò infine. "Regalerò a Dio le mie preghiere! Ecco che cosa si aspetterebbe da un uomo come me. Le mie preghiere, il mio aiuto e i miei servigi agli altri, le mie elemosine, penitenze, sacrifici ed opere buone...".

Prakash era ora al colmo della gioia per aver scoperto esattamente ciò che Dio si sarebbe aspettato e decise di aumentare le preghiere e le opere buone, e di tenerne conto in maniera molto particolare. Durante le settimane successive, per ogni preghiera e ogni opera buona pose nel suo vaso una pietra lucente. Quando il suo vaso fosse stato pieno fino all’orlo, lo avrebbe portato sulla montagna e offerto a Dio.

Alla fine, con il prezioso vaso colmo di pietre lucenti fino a traboccarne, Prakash si diresse verso la montagna. Ad ogni passo continuava a ripetersi ciò che avrebbe detto a Dio: "Guarda, Dio: ti piace il vaso prezioso? Spero di sì. Sono sicuro che sarai felice di tutte le preghiere e le opere buone che ho accumulato in tanto tempo per offrirle a te. Ti prego, ora abbracciami".

Prakash continuò ad affrettarsi su per la montagna, dove aveva appuntamento con Dio. Ripassando ancora il proprio discorso e tremando per l’aspettativa, arrivò ansimante alla vetta. Ma dov’era Dio? Non si vedeva nessuno.

"Dio! Dove sei, Dio? Mi hai invitato qui e io ho mantenuto la parola. Eccomi, ma tu dove sei? Non mi abbandonare. Ti prego, mostrati!".

In preda alla disperazione, il sant’uomo si accasciò al suolo e proruppe in lacrime. Poi, improvvisamente, udì una voce che risuonava dalla nubi:

"Chi c’è laggiù? Perché ti nascondi alla mia vista? Tu sei Parkash, vero? Non riesco a vederti. Perché ti nascondi? Che cosa hai messo tra noi?".

"Sì, Dio. Sono io, Prakash. Il tuo sant’uomo. Ti ho portato questo bel vaso. Dentro c’è tutta la mia vita. L’ho portato per te!".

"Ma io non ti vedo. Perché devi nasconderti dietro quell’enorme vaso? Non ci vedremo mai in questo modo! Non vedo l’ora di abbracciarti, perciò gettalo via. Toglimelo da davanti! Buttalo via! Fallo ruzzolare giù!".

Prakash non credeva alle proprie orecchie. Rompere il vaso prezioso e buttare via tutte le pietre luccicanti? "No, Dio. Non il mio bel vaso. L’ho portato apposta per te. L’ho riempito di tutta la mia....".

"Buttalo via Prakash. Dallo a qualcun altro, se vuoi, ma liberatene! Io voglio abbracciare te, Prakash. Io amo TE!"

(P. Ribes)

PROVOCAZIONI

Le sorprese della preghiera.

Per il pubblicano è la salvezza, per l’altro il Signore non pronuncia neppure una condanna esplicita. Se la preghiera avesse meritato una risposta esplicita avrebbe avuto un tono sarcastico: "Tu ti vanti di digiunare due volte la settimana, ma non tieni presente che c’è gente che digiuna molto di più per il semplice motivo che non ha niente da mettere sotto i denti. Mai sentito parlare di fame nel mondo? Tu paghi la decima per tutti i prodotti che acquisti, ma bada che c’è qualcuno che non paga la decima per il semplice motivo che non può acquistare nulla, nemmeno le scarpe, non dispone dei denari che hai tu". A pensarci bene, però, il fariseo non merita neppure una risposta ironica.

Collocarsi dalla parte del pubblicano

Un altro peccato, un altro abbaglio colossale di noi farisei, è quello di risolvere i rapporti con Dio sotto un aspetto quantitativo. In tale visione, Dio viene considerato come un padrone cui si debbono determinate prestazioni. Pratiche di devozione, messe, comunioni, pellegrinaggi, processioni. E così ci sdebitiamo. Abbiamo pagato le tasse religiose.

Al massimo ammettiamo che Dio posa aumentare le quote (coi tempi che corrono, con il caro vita, con l’inflazione....). Ma siamo sempre in un campo quantitativo. Non riusciamo a concepire l’idea che Dio sconvolga, ad un tratto, tale mentalità di dare e avere, ci ingarbugli le idee e ci faccia un discorso in cui viene rovesciata la nostra logica.

È necessario che piantiamo in asso il fariseo e ci collochiamo a fianco del peccatore, inchiodato alla propria miseria.

Lui sa che le credenziali valide per presentarsi dinanzi a Dio non sono rappresentate dalla propria irreprensibilità, onestà, perbenismo, dal certificato di buona condotta, ma dalla miseria, dal riconoscimento della propria condizione di peccatori.

Il pubblicano si sente piccolo. Per questo esce "innalzato" dal tempio.

Si riconosce povero. Ecco perché esce arricchito.

Il contrario del peccato non è la virtù.

La preghiera del fariseo non esprime l’azione di grazie, ma la soddisfazione di sé. È la soddisfazione tipica di chi si è fatto da sé, anche in campo religioso: straordinari nelle pratiche religiose, non ha badato a sacrifici e penitenze. Più che fare l’esame di coscienza che lo renderebbe un povero gradito a Dio, fa l’esame di compiacenza.

Il pubblicano non intende per nulla attirare l’attenzione su quel personaggio virtuoso che non è.

Ha ragione S. Kierkegaard: "Il contrario del peccato non è la virtù. Ma la fede. Una fede che fa aprire gli occhi sul tuo nulla e sul tutto di Dio, sulla tua miseria e sulla sua misericordia.

Acquistare leggerezza.

Dice l’autore del libro del Siracide (35,17): "La preghiera dell’umile penetra le nubi".

Arriva molto in alto perché parte dal basso.

Umiltà e povertà costituiscono due componenti essenziali della preghiera. Ma naturalmente non si improvvisano entrando in chiesa, rappresentano piuttosto due atteggiamenti di fondo dell’intera esistenza.

E la povertà non è questione soltanto di soldi. Infatti, il fariseo non appartiene alla classe sociale dei ricchi, eppure si pone davanti a Dio con la mentalità e la sicurezza del ricco. Il pubblicano certamente non appartiene alla categoria dei poveri, eppure nella sua preghiera ha un cuore povero.

Indifeso davanti a Dio

Tiriamo le conclusioni: se sali in alto, ti metti in evidenza, Lui non riesce a vederti. Anzi, "non può" vederti. Se ti ritieni migliore degli altri, li giudichi impietosamente, li condanni, lui sta dalla parte degli altri.

Lui concede udienza, nella preghiera, unicamente a chi è trascurato, non "raccomandato" (il fariseo si raccomanda da sé...), non ha la pretesa di farsi notare.

Forse sta qui il segreto della preghiera del pubblicano. Ha saputo presentarsi indifeso, trascurabile davanti a Dio.

 

ATTUALIZZAZIONE

"Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti..."(Lc.18,9). Presunzione assai diffusa. Il pensare di essere giusti e di agire nella giustizia è atteggiamento comune, e radicato profondamente in tutti gli uomini e le donne. È vero che, a parole, ammettiamo di peccare, di essere segnati da grandi limiti, di avere dei difetti: ma tutto ciò ci sta bene solo finché siamo noi ad affermarlo; se ce lo dicono gli altri stiamo male e reagiamo. Perché? Perché nell’intimo pensiamo di comportarci da giusti, di vivere in fondo rettamente, di non essere peggio di tanta altra gente che conosciamo. Un senso di infallibilità pervade il nostro essere, operare e riflettere, ed emerge non solo a livello individuale, ma anche a livello di gruppo, ecclesiale o politico: ciascuno pretende di possedere la verità, sentendosi, di conseguenza, autorizzato a giudicare o condannare altri che pensano o vivono diversamente. La condanna, a volte severa, proviene dalla sicurezza di essere nel giusto.

Mi capita spesso, nel dialogare con coppie in crisi, di constatare che tutti ritengono di trovarsi dalla parte della ragione: il marito si reputa un compagno ideale e non sa rendersi conto del perché non sia apprezzato dalla moglie; anche la moglie vede se stessa come donna perfetta, e si lamenta di non essere capita dal marito. Lo scontro nasce quando i due partners pensano di essere certamente nel giusto, ciascuno, per le proprie ragioni. Ma, se non si demolisce radicalmente questa presunzione, non ci sarà dialogo e soprattutto non potrà emergere un sano rispetto della diversità altrui. Amarsi da "peccatori" consapevoli, allora, è forse il modo autentico di esprimere l’amore.

Questo vale anche per le comunità, per i movimenti, per le diverse confessioni religiose: ognuno crede di aver trovato la strada giusta per vivere la fede, e la considera anzi ineguagliabile. Certo, se è l’unica per andare a Dio, non se ne possono praticare altre. Qui nasce l’integralismo, il fondamentalismo, il rifiuto di un dialogo delle differenze.

Anche la nostra Chiesa, la Chiesa cattolica, per molti secoli ha guardato a se stessa come all’unica vera chiesa, l’unica, assoluta religione, l’unica strada per conoscere Dio, per arrivare a Lui. Credendosi la sola, è diventata intollerante verso le altre fedi e, al suo stesso interno, verso persone che esprimevano sensibilità diverse.

Spostandoci all’arena politica: vediamo partiti e formazioni che si propongono con grande sicurezza, animati da un particolare senso di infallibilità, credendo forse di essere i soli a possedere la verità. Nasce lo scontro, oggi verbale, e che domani potrebbe diventare fisico. Non è sconsolante talora vedere in Parlamento deputati che usano i pugni e le minacce per difendere, aggredendo, le proprie idee?

Vorrei dunque dire, a me ed a voi, che l’intolleranza e l’insofferenza per chi e diverso sorgono irrefrenabili quando il nostro io si ritiene depositario della verità definitiva.

All’opposto abbiamo l’atteggiamento del pubblicano. Dice il Vangelo: "....non osava nemmeno alzare gli occhi". Perché? Egli non guarda agli altri, guarda a se stesso. Osservandosi, scopre i propri limiti, le proprie infedeltà, e non ha il tempo, né la voglia, di giudicare chi gli è vicino. Più l’uomo è capace di vedersi peccatore, limitato, più diventa accogliente con gli altri e pronto ad apprezzare e stimare le diversità. Guardarsi dentro è anche un modo per vivere nell’amicizia col nostro prossimo, e nella comunione tra gruppi.

Invece, oggi, si tende a scrutare i difetti ed i peccati dell’altro, senza aver prima messo a fuoco il proprio modo di vivere e di operare.

"Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato" (Lc.18,14).

Il significato di queste parole è semplice: è Dio che umilia chi si esalta ed esalta chi si umilia. Ma, attenzione: non faccio riferimento ad un’azione diretta di Dio sulle vicende umane.

Essa non è da escludere, ma sono sempre più convinto che Egli prevalentemente non operi in modo speciale sugli uomini e sui loro atti, per punire o per premiare: penso invece che lasci a noi stessi la responsabilità di autopunirci o premiarci.

Cosa intendo dire? L’individuo che si esalta, che si crede superiore, non avverte più il bisogno di imparare e crescere, non si confronta più con il mondo ed i suoi simili, o trasforma questo confronto in qualcosa di puramente funzionale ai propri interessi: ma, non crescendo più, l’individuo si impoverirà, e proverà un gran senso di frustrazione e di umiliazione. Al contrario, la persona mite, che ammette di non essere tutto e di non sapere tutto, sarà recettiva, cercherà di ampliare le sue conoscenze nel dialogo, nello studio, nel confronto; questa disponibilità la manterrà aperta, sempre pronta a riformarsi, a cambiare ed a camminare: verrà veramente esaltata. Il credente è appunto uno che riconosce il proprio limite e riesce per questo a percorrere un camino di crescita.

Mi sembra che Luca, nei due personaggi della parabola, tratteggi due Chiese, due modi di fare Chiesa. Da un lato quella sicura di sé, che si giudica dimora della verità e rischia di risultare arrogante ed intollerante: forse già al tempo dell’evangelista questa chiesa disprezzava i pagani e non era accogliente con i peccatori. Ma d’altro lato c’è un modo di fare Chiesa diverso, quello proprio di una comunità che sa di essere imperfetta e di conseguenza tenta di convertirsi e di crescere nella fedeltà, sapendo approfittare anche degli stimoli e delle intuizioni che vengono dal di fuori, dal mondo. Questa Chiesa si arricchirà di valori e potrà essere segno di comunione fra gli uomini.