CON L'AMORE RINASCE LA SPERANZA

La dottoressa Ana J. è coinvolta nella tragedia della guerra di Bosnia e racconta in prima persona, durante una trasmissione, la sua fuga dal paese, la convivenza in mezzo ad altri profughi, lo stile del suo servizio. Aveva detto che dava per titolo alle sue vicende: "Tutto vince l'amore".

Come tante persone della Bosnia, anch'io, cinque anni la. sono fuggita dal mio paese con un fagotto in mano. Mi sono rifugiata nella regione della Bosanska Posavina, nel nord est, rischiando la vita insieme a mia madre, ad una cognata ammalata di cancro e ai suoi tre figli, mentre mio padre e i miei due fratelli sono dovuti rimanere in Bosnia.
In una notte la guerra mi aveva portato via tutto: casa, amici, sicurezza, progetti per il futuro. Non sapevamo dove saremmo finite e avevamo in cuore solo dolore. Dopo un lungo peregrinare, siamo arrivate a Zagabria, dove siamo state accolte da un conoscente.
Sono riuscita a trovare lavoro in un'organizzazione umanitaria. Ogni giorno venivo a contatto con le tragiche realtà della guerra: i profughi che si affollavano nel nostro ufficio in cerca di aiuti erano migliaia: erano richieste urgenti, situazioni difficili, con ferite profonde.
Le esperienze dolorose non erano però finite, per me: mia cognata è morta, affidando a me i suoi tre bambini, e mia madre si è ammalata gravemente fino a rimanere completamente paralizzata. Ero angosciata: le responsabilità che gravavano sulle mie spalle mi sembravano troppe, le difficoltà insormontabili.
In quel buio interiore è stata per me una luce il comportamento di una mia collega: era sempre paziente, sapeva prendere su di sé l'angoscia degli altri e aiutava tutti concretamente. Un giorno le ho chiesto quale fosse il suo segreto e ho scoperto che alla radice della sua serenità c'era una fede incrollabile: la certezza che Dio è Amore, che è Padre e ama ciascuno immensamente. Ho saputo che anche altri, come lei, vivevano questo spirito e avevano in cuore un grande ideale: contribuire a realizzare, pur in mezzo alle tragedie, un mondo fraterno. Sono rimasta scossa e in me si è riaccesa la speranza.
Ho sentito un forte desiderio di rispondere all'amore di Dio incominciando a mia volta ad amare. Questo ha ridato senso alla mia vita. Ricordo un giorno: per la prima volta partecipavo ad una riunione in cui erano presenti, insieme, musulmani, ortodossi e cattolici. Nutrivo qualche paura. Molti di loro erano profughi come me, vivevano le stesse mie tragedie, o forse peggiori: ma ho potuto scoprire che avevano fatto dell'amore la legge della loro vita. E stata una conferma: "Sì, l'amore vince tutto!".
Non era più così drammatico rimanere per lunghe ore ad aspettare gli aiuti umanitari, darli a chi aveva più bisogno senza guardare alla nazionalità di appartenenza, o farsi carico dei dolori altrui dimenticando i propri. Sperimentavo una pienezza mai provata.
Poi, da Orasje, in Bosnia, a pochi chilometri dal mio paese, mi è arrivato l'invito a riprendere il mio vecchio lavoro di giudice. Ho sentito che dovevo ritornare tra la mia gente. Provvidenzialmente mio padre ci ha raggiunto ed è rimasto a prendersi cura dei tre nipotini.
La città era ancora sotto i bombardamenti, con allarmi continui. Sapevo di essere poco distante dalla mia casa d'origine, avrei voluto rivederla, ma non potevo raggiungerla perché, di mezzo, c'era un territorio occupato. Mi si stringeva il cuore, ma non avevo il tempo di cullarmi nei ricordi: mi trovavo tra case distrutte, in mezzo a gente smarrita, bisognosa di calore umano, che implorava aiuto.
Sono stata sistemata in una stanzetta d'albergo dove alloggiavano anche militari e profughi. L'ambiente era difficile. I1 mio lavoro richiedeva molto impegno, anche oltre le ore d'ufficio: c'era da lavorare per salvare matrimoni misti che l'odio fra le etnie aveva messo in crisi; molte famiglie erano state smembrate e avevano bisogno di aiuto nella ricerca del coniuge o del parente disperso; c'erano prigionieri guerra da contattare.

A tutto questo si aggiungeva la mancanza assoluta di beni di prima necessità. Sentivo suda mia pelle tutte queste piaghe e avvertivo che dovevo andare a fondo di ogni situazione che incontravo. Da giudice, diventavo spesso sorella o madre. Mi dava forza il pensiero di Gesù che sulla croce aveva gridato: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" .
    Guardando a Lui, che non aveva rifiutato di percorrere la strada del dolore, ogni dolore mio o degli altri acquistava un senso e trovava una risposta. Sentivo chiaramente che in lui, pur nella disperazione generale, potevo essere un piccolo segno di speranza.
A contatto con tanti, ho visto quanta sete ci fosse di sollievo e di aiuto spirituale, oltre che materiale. Così è nata spontaneamente l'idea di incontrarci: si è formato un gruppetto di vedove e di orfani. Ci vedevamo ogni giorno, ci scambiavamo le esperienze del vangelo vissuto, pregavamo per la pace. Questo appuntamento era ed è tuttora il nostro sostegno. Man mano che il tempo passa, molti si uniscono a noi e nei cuori fioriscono il perdono, la speranza e la forza per iniziare una nuova vita.
Certo, la situazione è ancora molto difficile, c'è una grande confusione. Di fronte ai tanti problemi è certo piccolo il nostro contributo. Ma nella mia anima c'è solo un'immensa gratitudine a Dio per aver colmato la mia vita e quella di molti altri con il suo infinito amore, e, insieme, la certezza che Lui solo può guidare questa nostra terra e tutta l'umanità verso la realizzazione di un mondo di pace e di concordia fra i popoli. Ana J. (Bosnia)

ASCOLTARE "QUELLA VOCE" CHE VIENE DAL BUON PASTORE

"Faccio l'ostetrica, mi chiamo Cristina Colombara. Ero alla fine di un turno di lavoro, ed avevo lavorato molto (otto parti); arriva una donna. Incomincia ad avere contrazioni, sta bene, tra due o tre ore darà alla luce un bambino. La faccio mettere a letto: calcolando che partorirà fra due ore e che il mio servizio sta terminando, toccherà alla mia collega occuparsene. Cinque minuti dopo, ripassando davanti alla sua camera, "la voce" dentro mi dice di andarla a vedere: non c'era alcun motivo apparentemente (avevo già anche deciso di salutarla prima di lasciare l'ospedale). Nonostante la poca pratica che ho di ascoltare "quella voce", ho sentito di non dover discutere. Mentre prendo la maniglia per aprire la porta, ho offerto questo momento a Dio, sono entrata ed ho deciso di visitare la signora.. Da qualche secondo la situazione precipita per il nascituro. Il bambino sta correndo un grave pericolo. Il cordone ombelicale è rimasto incastrato davanti alla testa del bambino e con la sua testa il bambino preme sul cordone impedendo così la circolazione feto-uterina. Con le dita ho spinto dentro la testa del bambino, e contemporaneamente ho chiamato aiuto. In cinque minuti, con il taglio cesareo, è venuta alla luce una bambina in piena forma. Uscendo dalla sala operatoria, l'assistente del parto mi dice: "Non capisco come hai fatto a trovarti lì al momento giusto". Allora gli ho spiegato come ho ascoltato "quella voce" interiore, come dice il buon Pastore. Quando sono tornata in servizio il giorno dopo, ho rivisto la signora che intanto era stata messa al corrente di tutto ed anche lei mi fa la stessa domanda. E anche a lei racconto l'accaduto e le do la pagina del Vangelo che nel frattempo avevo fotocopiato in segreteria. Lei non crede in Dio, ma mi dice: "Conserverò sempre questa pagina, perché un giorno voglio che mia figlia sappia che deve la sua vita a questa parola di Vangelo e a chi l'ha vissuta".
(da "Camminare insieme", maggio1998 - pg. 2)